Lunedì, 29 Aprile 2024
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3ª PUNTATA / IL CENTROMEDIANO METODISTA - Il giornalista Paolo Accossato ripercorre le tappe della sua amicizia con Giorgio Frassinelli, dal primo incontro al Piemonte Sportivo fino ai racconti al bar di piazza Basilicata: "Appassionato, competente, innamorato ma prima di tutto un uomo perbene, serio e onesto. Raramente una convergenza di opinioni su una persona è risultata così ecumenica, raramente la mancanza di un amico può sembrare così struggente"    


“Ci vediamo in piazza Basilicata. Facciamo alle 10 così ti offro colazione”. Era giugno e per scrivere il mio libro sulla storia delle società di calcio giovanile avevo bisogno di qualche informazione in più sull’Ardor. Sapevo che lui sapeva tutto sull’Ardor, sapevo che lui per certi versi era l’Ardor. Lo chiamo a casa perché, come mi diceva spesso, “il cellulare spesso lo tengo spento e proprio non mi ci abituo”. Mi dà l’appuntamento e ricordo di essere andato con un buon numero di fogli perché, lo conoscevo bene, l’incontro non sarebbe stato breve.

Cerco di ripopolare la memoria con il ricordo e credo di aver visto Giorgio Frassinelli la prima volta al Piemonte Sportivo, quasi certamente nella sede di via Guidobono. Fine anni ’80, mi dicono che quello è il Frassi dell’Ardor. Con me Aristide Tutino, Luciano Coraglia, un giovane Enzo Tripodina. La sua parlata di velluto sulla “r” un po’ arrotata, la capacità di fare sentire a proprio agio nonostante la differenza d’età. I fogli in mano con distinte un po’ scritte a mano, un po’ a macchina da scrivere. Da lì tante telefonate, soprattutto in occasione dell’Oscar e del Superoscar: “Ciao Paolo Accossato della Stampa” dall’altro capo del filo e io che no, non devi associarmi al giornale, ma lui riconoscente per un trafiletto. Sempre troppo per lui, sempre troppo poco per me.

Quel giorno in piazza Basilicata mi racconta un aneddoto. Frassinelli, siamo negli anni ’70, è al Guala, la società rosanero della piazza omonima. In un’epoca senza cellulari in cui è un miracolo trovare i risultati del proprio girone prima del lunedì mattina, il “Giò” riesce già entro la sera della domenica a sapere come sono andate tutte le partite, stilando graduatoria e classifica marcatori aggiornate, per così dire, in tempo reale. Al bar di piazza Guala passano anche quelli dell’Ardor che tentano lo scippo: “Verrebbe a fare quattro chiacchiere da noi?”. La sede è in strada San Mauro, poco più di un buco dove Frassi trova venticinque persone ad attenderlo. Sui lati, armadi e scaffali che si aprono svelando piatti, tovaglie ed una cena pronta con cui quelli dell’Ardor conquistano quello che sarà l’anima della società per ventisette anni.

Nascono anche così le piccole grandi storie dei grandi e per nulla piccoli dirigenti del calcio: una cena condivisa oppure un campanello rubato alla parrocchia di San Giacomo con cui si guidano le riunioni serali proprio come in un Consiglio dei Ministri. Spesso quando si parla di chi non c’è più si tende a rendere agiografica la sua vita, si mitizza e si esalta senza troppo tener conto delle nostre naturali miserie. Con Frassinelli questo non è possibile perché rappresenta per tutti quelli che lo hanno conosciuto la normalità di un uomo perbene. Appassionato, competente, innamorato ma prima di tutto un uomo perbene, serio e onesto. Che la buona sorte ha portato in rotta di collisione con il calcio ma che avrebbe potuto essere lo stesso in mille altri ambiti della vita. Perché un conto sono gli accidenti aristotelici che declinano la nostra esistenza verso l’una o l’altra parte, altro è la sostanza dell’essere umano. Raramente una convergenza di opinioni su una persona è risultata così ecumenica, raramente la mancanza di un amico può sembrare così struggente.   

 

8 - Facciamo un salto indietro di 13 anni: Paolo Accossato ci racconta, con la solita maestria, l'impresa sportiva del Favria, capace di vincere il campionato di Eccellenza a dispetto del Rivoli di Marco Sesia e di altre corrazzate: in quella squadra, allenata da Paolo Diliberto, c'erano il bomber Pierino Daddi,  il metronomo De Martini, l'esterno argentino Caserio... Tutto come in un film, ma con un finale amaro.


La letteratura sportiva, e non solo quella, canta da secoli le mirabili e all’apparenza impossibili gesta dei Davide contro i Golia, i piccoli che si fanno grandi, gli indiani che battono i cowboys, i Leicester che vincono una Premier. La rivincita di Ettore, dei Bonini o degli Oriali, dei portatori d’acqua, delle Danimarche ripescate che vincono casomai gli Europei. Ce ne sono tante anche dalle nostre parti dove solo in apparenza il pallone rotola più piccolo o più lento. Vicende di imprese neppure immaginate, racconti di campionati che chissà come e chissà perché il dio del calcio ha orientato in determinate maniere. Di solito sono storie edificanti, di quelle da raccontare ai nipotini o alle tavolate quando ci si rivede dopo tanti anni: “Ti ricordi?”, “Che cavalcata, vero?”, “E poi l’ariete che fine ha fatto? Quanti gol? 20?”, “E la muraglia dove è finita? Con lui non si passava”. Una pizza, una birra ed ecco che la memoria diventa mito e la reminiscenza leggenda. Si dice che la materia dei poemi cortesi del Cinquecento non veniva attinta da mitologie troppo lontane perché eccessivamente distanti dai gusti contemporanei e neppure da fatti vicini in quanto troppo prossimi al presente e dunque inabili ad esaltare la leggenda.

Nel mondo del nostro calcio 13 anni possono essere più che sufficienti perchè la storia perda i contorni dell’urgenza e svapori nel mito senza scivolare nel fantastico. Favria, dunque, stagione 2006-2007. Canavese caput mundi con l’omonimo undici di Iacolino a toccare la vetta della C2, la Rivarolese di Milani a gareggiare con le grandi di D. E poi c’è quel paese all’epoca di 3000 abitanti che osa scalare l’Olimpo per fare solletico agli dei. L’Italia si risveglia dalle notti tedesche e quando si vince un Mondiale i sogni sono un po’ meno sogni anche quando ti metti in testa l’idea bellissima di dare fastidio a chi ha più storia, esperienza ed appeal di te. Biella, Rivoli, Settimo (sponda viola e lato Pro), Gozzano, Borgosesia, Lascaris, Valle d’Aosta nel girone A di Eccellenza. E poi quel puntino sulla cartina con il campo, il “Picco”, a fianco della provinciale ed in mezzo ai campi che se il pallone finisce oltre la traversa e supera le protezioni bisogna andarlo a prendere tra trattori. Gli spogliatoi sono a dir poco fatiscenti, il terreno un po’ gibboso ma mister e squadra ci sono eccome. Rizzi, Beccia, Capozzielli e poi giù fino a Cagliano, Daddi, Pregnolato e Caserio. Diliberto in panchina con la voglia di capovolgere il mondo. A Favria quella formazione se la ricordano ancora, quasi come il mantra Zoff, Gentile, Cabrini del 1982. Un campionato giocato punto a punto con il Rivoli, la grande piazza con Sesia a guidare uno squadrone che in attacco schiera Cresta e Zocco, 34 gol in due. Nessuna fuga, partite in fotocopia e dunque sempre sul filo dell’equilibrio. Punto a punto tanto che si arriva al 29 aprile 2007 con una striscia di cinque vittorie in parallelo nelle ultime cinque giornate e gli incredibili canavesani avanti di un punto: 68 a 67.  

Favria caput mundi per un giorno, la D ad un passo e i telefonini che trillano a chilometri di distanza (non ci sono ancora le chat di whatsapp) per una diretta stile Tutto il calcio minuto per minuto. Il Rivoli vince facile con la Varalpombiese già alla fine del primo tempo e allora mezzo Piemonte e forse qualcosa di più idealmente si sposta sulle tribune di Favria. Dove i locali contro il Veveri hanno il braccino, sentono il peso di una cavalcata forse troppo veloce per loro. Daddi, 19 reti a fine anno, è un po’ meno cecchino del solito, il metronomo De Martini non trova le note giuste, Caserio non ha la solita garra e per l’argentino che giocò nel settore giovanile del Boca accompagnato al campo da Caniggia e per cui Maradona ebbe parole al miele profetizzando per lui un futuro in nazionale, il gol non arriva. A dieci minuti è ancora 1-1: D a Rivoli e ciao ciao miracolo Favria. Diliberto toglie due difensori, butta dentro Roscio e Caravaglio e all’89’ su passaggio di Roscio, la rete proprio di Caravaglio. Come in un film. Che dopo i titoli di coda si veste però di malinconia perché i Titani che osano scalare l’Olimpo sollecitano l’invidia degli dei: in via Busano la struttura non è da serie D e allora le dirigenze di Favria e Rivoli, fino a ieri avversarie, si incontrano. E arrivano ad un piano che fa quasi tutti contenti: la dirigenza canavesana si trasferisce in via Isonzo portando con sé mister e 8 giocatori. L’anno successivo il nome piemontese che campeggia tra i dilettanti è così quello del Rivoli, secondo in campionato però con buona parte dei giocatori che il torneo l’hanno vinto. A rimetterci proprio il paese di Favria, sedotto e abbandonato sul più bello tanto che da qual momento il suo nome non si legge più negli annali del calcio regionale. 

7 - Ritorna il nostro (e il vostro) Paolo Accossato anche in questa nuova stagione, con la stessa rubrica a cui ci siamo affezionati nei mesi scorsi, ma con sempre nuovi contenuti e storie da un tempo in cui il calcio era cosa molto diversa da quello che conosciamo ora, seppur in qualche modo uguale: ecco a voi il "Il centromediano metodista, storie vintage di un calcio che fu", per una nuova entusiasmante stagione di calcio e scrittura.


Pochi, pochissimi chilometri più a nord di piazza Sofia c’è un triangolo delimitato dalla ferrovia Torino-Milano, corso Giulio Cesare e lo Stura. Si chiama Pietra Alta, è un quartiere nel quartiere e da lì, da quel triangolo di campi e cascine, più che altro, si passa. Per andare a Milano, per andare a Settimo, per andare altrove. Nel 1951 a Pietra Alta difficilmente ci si ferma, le case non sono poi così frequenti. Più facile trovare casolari e fattorie: Torino è lontana e gli abitanti locali per andare in centro dicono che vanno in città. Non ci sono ancora le due torri che oggi accolgono il visitatore che arriva dall’autostrada Torino-Milano, non c’è ancora il supermercato Auchan. Campi più che altro ma anche un piccolo feudo urbano, una macchia di cemento che prende il nome di Villaggio Snia, costruito apposta per gli operai della fabbrica chimica.

Alla domenica, però, costi quel che costi si gioca in un torneo Uisp e la squadra è composta dai figli degli operai impiegati alla Snia Viscosa. Vivono tutti al Villaggio Snia, esperimento urbanistico e sociale a metà tra il paternalismo dei villaggi operai di fine Ottocento e il tentativo di una razionalizzazione scientifica del lavoro. Prima di tutto c’è da darsi un nome: al Comunale tre settimane dopo la tragedia di Superga si era giocata una partita tra una selezione dei migliori giocatori di serie A, il “Torino simbolo”, e il River Plate con l’incasso devoluto alle famiglie dei giocatori periti nello schianto. Quei ragazzi della Snia si innamorano del tango calcistico argentino fatto di tocchi felpati e di una confidenza quasi sensuale con il pallone. In più in quel River c’è un giovanissimo Di Stefano. Così in un primo momento il Villaggio Snia diventa Buenos Aires e il selciato con le pietre a delimitare il campo si trasforma nel Monumental. Poi quando c’è da diventare squadra, quando c’è da dare un nome a quello stare insieme, allora non ci sono dubbi: noi siamo come il River Plate, noi siamo il River. Anzi “Nos somos River”, all’argentina e quel “somos” diventa anagramma che fa memoria. Perché a Pietra Alta in strada Cascinette è nato Luigi Mosso, un giovane partigiano ucciso dalle forze nazifasciste nel 1944 sulle montagne nei pressi di Corio. Luigi era un fresatore e quel ragazzo di ventitre anni caduto in guerra diventa un simbolo per quei giovani che vivono in un quartiere a fortissima presenza operaia dove l’appartenenza sociale si fonde al senso civile e alla partecipazione politica. Al River si aggiunge dunque Mosso: è un nome un po’ strano, quasi criptico ma da portare in giro per Torino con grande orgoglio, lo stesso con cui il nipote di Luigi segue il River ancora oggi dalla sua ferramenta proprio di fronte al campo sportivo.

E poi, le maglie. Qui è tutto decisamente più facile perché i colori si disegnano da soli. Maglia bianca, banda rossa trasversale perché “Nos somos River” e così l’identificazione con gli argentini è totale. Non siamo però in serie A e l’unico gioco di casacche presto si sbiadisce a forza di lavaggi delle mamme (lavanderia? arriverà negli anni ’80) tanto che la stagione iniziata con una riga rossa brillante si conclude con un rosa pallido che dilaga su tutto il tessuto. Così si architetta, potenza della fantasia, uno stratagemma. Per l’anno successivo le maglie sono bianche e su di esse si cuciono bottoni a pressione su cui fissare una striscia di stoffa che si può dunque staccare al momento del lavaggio.

Questi sono i primi vagiti del River Mosso, una delle tante squadre che a partire dal dopoguerra vestono di calcio la nostra città. Una delle tante, si potrebbe dire, ed in effetti tante sono veramente a ruota del Cenisia, del Barcanova, del Vanchiglia, le madri di tutte le società metropolitane. Il fatto che ciascuna abbia una storia, un nome, un perché del colore, ad esempio, delle maglie dice che nulla è per caso. Ovunque ma anche nel microcosmo pallonaro sotto la Mole. Se ci sono sodalizi con nomi di partigiani, se c’è un motivo perché le casacche del Cenisia sono viola e quelle del Venaria verderancio, se esiste una ragione per cui il River Mosso poteva esistere solo a Pietra Alta, tutto questo significa che abbiamo una storia alle nostre spalle. Usando il plurale, si intende ciascun dirigente che abbia sudato su un campo, ciascun presidente che abbia investito in un impianto, ciascun tifoso che abbia portato una bandiera sulle tribune, ciascun giornalista che abbia scritto tre righe su una partita. Tutti quanti hanno fatto parte di una storia, una piccola storia magari di un microcosmo che oggi non c’è più ma senza il quale anche tutto il resto avrebbe assunto colori e forme diverse.

Più che approdo della nostalgia è constatazione di appartenenza. Ad un mondo, quello del pallone dilettantistico, oggi troppo spesso violentato da intromissioni dei grandi: imitazioni, narcisismi, specchietti per allodole. Epigoni surrogati e null’altro. Che esistono in quanto altri esistono. Che magari ci sono ma che non sono. L’inizio della storia del River Mosso, una delle tante, insegna non tanto a ritirare fuori i “Ti ricordi?” ma a chiarirsi una volta meglio chi eravamo. Tutti, anche quelli che all’epoca non c’erano e che oggi hanno altre priorità. Nessuno chiede di tornare al tessuto di quelle maglie, nessuno implora il campo in terra battuta. Ma come quei ragazzi hanno detto “Nos somos River”, anche noi oggi dobbiamo convincerci (e senza vergogna) che siamo un pezzo di quelle squadre.

6 - Paolo Accossato, in questa puntata della sua rubrica "Il centromediano metodista, storie vintage di un calcio che fu", ricorda la partita per eccellenza della storia del Canavese; lo spartiacque tra i dilettanti ed il professionismo, l’ultimo passo verso un traguardo impossibile per un paese di tremila abitanti.


L’autostrada che porta a Lavagna non è francamente delle più memorabili. Il primo tratto accompagna fino a Savona e vedere dopo tante tortuosità asfaltate qualche scaglia di mare ristora l’animo. Poi la A10, quella dei Fiori fino a Genova con la sua tangenziale che entra nei salotti delle case prospicenti ed infine la A12, ancora per quaranta chilometri in cui si fa il conto alla rovescia perché il casello arrivi in fretta. Duecentoquindici chilometri da Torino, duecentoquaranta se si parte da San Giusto: quella che già si chiama una tosta trasferta in serie D tanto che bisogna partire presto al mattino perché se no alle 15 non si arriva certo per la partita dovendo anche fare pranzo. Chissà cosa pensavano sul pullman i giocatori e lo staff del Canavese quel 25 aprile 2007 andando a Lavagna per quella che doveva essere la partita per eccellenza della storia rossoblù, lo spartiacque tra i dilettanti ed il professionismo, l’ultimo passo verso un traguardo impossibile per un paese di tremila abitanti.

Là davanti, nelle prime file, Salvatore Iacolino, quello che di lì a poco sarebbe diventato “mister serie D” con un filotto inarrivabile di successi in campionato. Vuoi partecipare alla D e ragionevolmente vuoi vincerla? Costruisci una squadra che al 90% ti dà la sicurezza di farlo? Ingaggia Iacolino ed arriva il restante 10%. Casale, Savona, Alessandria, Cuneo: per qualche anno passare ai professionisti significava passare attraverso Iacolino. Poi Massimo Bava, sì proprio l’attuale ds del Toro. Regista sul campo, sinistro garbato, intelligenza calcistica riversata poi dietro la scrivania (la sua in realtà è la tribuna a osservare partite) al Rivoli, al Volpiano e poi al Canavese, la sua creatura ora ad un passo dal grande salto.

Patron Ferraris arriva in macchina perché il presidente non può mancare all’atto conclusivo di un percorso d’amore più che di calcio iniziato anni prima con la Sangiustese. Il Canavese come nome ma anche come marchio da esportare di una zona a quell’epoca non ricca, ricchissima di calcio. Il polo del pallone piemontese con Rivarolo, Favria, per non parlare dell’Ivrea. Una zona capace di dare due squadre a pochissimi chilometri di distanza in serie C dopo che il professionismo nel Torinese negli ultimi trent’anni era stato toccato solo dal Moncalieri. E dopo quella felice esperienza nessun sodalizio della provincia sarà più capace anche solo di avvicinarsi al traguardo.

Sul pullman, appena dietro, i giocatori. Under e senatori, concentrati. Per molti, la prima volta di un passaggio così epocale. Michel Alberti, il bomber toscano da 20 gol a stagione, zazzera iacentina, sguardo furbo, letale in area di testa e di piede. Marco Bergantin, l’eterno furetto in grado di rimbalzare tra i difensori ed incunearsi dopo lo spazio non c’è, Davide Bonato, l’unico canavesano doc, Gianluca Bo, il giovane che oggi gioca ancora nel Vanchiglia e di mestiere fa il parrucchiere e taglia i capelli a Belotti, Mario Chianello, rude centrale con piede ruvido e sorriso da scugnizzo al fianco di Herman Elia, l’argentino arrivato nel mercato di dicembre.

Poi il ghanese N’ze Koaussi, fisico e velocità sulla fascia ed un centrocampo da martelli: Cretaz, Del Signore, Montingelli. In un attimo la palla ritorna a casa e ancora più velocemente è sui piedi degli attaccanti. Infine Lollo Parisi, la punta tutto genio e sregolatezza, il pallone sempre ad un centimetro dal piede (possibilmente il sinistro). L’anno della sua esplosione, della sua consacrazione. In estate Iacolino non lo vuole, non lo conosce così bene. Bava gli dice di fidarsi, di Parisi sa vita, morte e miracoli. Quella può essere la stagione della sua svolta calcistica e già dopo un paio di mesi Iacolino capisce che sarà proprio così.

Scendono dal pullman, vanno negli spogliatoi, piccoli, proprio attigui al campo che è incastrato tra le case e le vie della città. Lì ad un passo il mare, poco distante la montagna, un miracolo trovare una spianata non in dislivello su cui costruire l’impianto. La giornata è di sole appena appena velata, il terreno in sintetico restituisce il calore già più che primaverile. Nel riscaldamento Iacolino è di una tranquillità olimpica: per tenere dietro il Savona definitivamente basta un pareggio. Ad una squadra abituata a capitalizzare al massimo gli 1-0 può andare anche bene uno 0-0 o simile. Ci sono due bus arrivati direttamente da San Giusto, se non c’è mezzo paese poco ci manca. Ma l’occasione lo impone. Quando mai San Giusto andrà a giocare contro le grandi di serie C? Intanto c’è un rigore ed è per la Lavagnese: Marchio troppo irruente su Nicolini e Masucci quasi con scherno fa il cucchiaio a Vono. Il dio del calcio lo punisce e proprio Masucci stende Parisi poco dopo. In area. Il peso di una stagione, il sinistro radente nell’angolo. Uno a uno, ripresa al cloroformio, a tutti va bene cosi. Si tirano fuori le bandiere, si innaffia Iacolino che non tenta neppure la fuga. Le foto di rito, gli spruzzi negli spogliatoi, per quattro anni sarà serie C con Storgato, Sesia, Prina, Ezio Rossi: San Giusto contro Pavia, Varese, Como, Olbia, Pro Vercelli, il derby con l’Ivrea. Poi si ritorna a casa e da Lavagna a San Giusto anche l’autostrada diventa un sentiero da percorrere con piacere.

5 - Paolo Accossato, in questa puntata della sua rubrica "Il centromediano metodista, storie vintage di un calcio che fu", ci racconta come nello sport nulla sia impossibile. Difficile sì ma impossibile mai, attraverso una carrellata di alcuni tra più noti "momenti irripetibili" nel panorama del dilettantismo.


In lingua greca si chiamano adunata e letteralmente significa “cose impossibili”. Eventi strani, irripetibili al punto da diventare incredibili e fare giurisprudenza, ma al contrario. Nella lingua italiana adunaton è un termine diventato anche figura retorica usata dai poeti soprattutto per significare strambe astrusità, a metà tra il fantastico ed il paradossale. Una goccia che risale le scale, ad esempio, nel mirabile racconto di Dino Buzzati. Gli adunata colpiscono e rimangono nella memoria proprio perché la ragione non è avvezza a decodificare la meraviglia dell’unicità e allora il diverso diventa oltraggio alla placida sicurezza all’interno della quale siamo abituati a vivere. L’adunaton è lo schiocco di frusta, lo sparo nel buio, il fremito che coglie, l’anello che non tiene, direbbe Montale. L’infrazione alla regola, insomma che sconvolge il già scritto. Nello sport nulla è impossibile. Difficile sì ma impossibile mai e allora ecco una carrellata di adunata, alcuni più noti nel panorama del dilettantismo, altri decisamente più oscuri che hanno contribuito a rendere pallido il DossenaBonessoTorrisi capace di ridisegnare in tre minuti il derby forse più caro ai colori granata.

Si può essere esonerati con cinque punti di vantaggio sulla seconda e con la squadra lanciata verso la serie C? Brucia ancora a quasi vent’anni di distanza l’allontanamento dalla panchina dell’Ivrea di Salvatore Iacolino, mister promozione, che nel 2002-2003 viene sollevato dall’incarico nonostante la leadership a gennaio nel girone con gli eporediesi puntualmente poi promossi a maggio. Impossibile ricordare un altro esonero così particolare per tempistica e motivazioni secondo cui “il gioco non era più quello dell’inizio dell’anno”.  

Impossibile, ma fino ad un certo punto se si pensa a quello che capita all’inizio del nuovo millennio a Beppe Murina, mister della Juniores Provinciale dell’allora Beppe Viola, fatto fuori durante l'ultima giornata di campionato addirittura tra il primo e il secondo tempo della partita con il Sassi. Alla metà della prima frazione di gioco un giocatore del Beppe Viola si fa male e, vista la panchina corta, Murina fa entrare in campo un ragazzo che avrebbe dovuto giocare il giorno successivo con la prima squadra. La società non ci sta e l’esonero scatta negli spogliatoi tra il primo e il secondo tempo con legittimo stupore dell'allenatore.

Tra i tanti mondi che vanno al contrario c’è anche quello dell’arbitro che insulta un giocatore. Di più, una giocatrice. Solitamente il campo è la sentina dove finisce tutto il becerume dell’italico tifoso sempre pronto a sfogare la propria frustrazione nei confronti della giacchetta nera. Freud con tutta probabilità parlerebbe di avversione verso l’autorità con la felice libertà dell’impunità. Antico vizio, mai risolto. Per una volta le parti si invertono, e non è che la rivalsa sia da ricordare nei libri di storia calcistica. Siamo nel 2018 e l’arbitro della sezione di Biella Tarak Boudjelel pronuncia alcune frasi sessiste nei confronti di una calciatrice del Carrara 90 durante un match di Coppa Piemonte di serie C. Parte l’iter delle indagini, vengono acquisite tutte le documentazioni e si svolgono gli interrogatori di rito da parte degli avvocati dell’Ufficio Indagine fino alla sentenza di due mesi (patteggiati) da parte della Procura confermata poi dal Tribunale sportivo.                   

Chissà se l’arbitro di Promozione Massimiliano Botosso di Biella avrebbe mai immaginato che un giorno il suo nome sarebbe finito sul tabellino di un match alla voce “marcatori”. Nel 2002 il fischietto biellese diventa goleador nel match Borgaro-Saint Christophe visto che su tiro del torinese Tunno l’ultimo tocco prima che la palla finisca in rete è proprio di Botosso. Una deviazione di schiena degna del miglior Inzaghi che spiazza il portiere valdostano. Per fortuna l’episodio non influisce sul risultato visto che il Saint Christophe segna poi tre reti facendo suo l’incontro.

A Settimo i derby tra la Pro e le violette sono sempre qualcosa di speciale, anche nelle categorie giovanili. E qualche volta ci si mettono pure le designazioni arbitrali a renderli più pepati. Nel match di Allievi regionali del 2015 terminato 1-0 per la Pro il direttore di gara è infatti Michael Selvaggio, fratello del portiere della Pro Settimo, assente in quanto in gita scolastica. Nessun conflitto di interesse diretto ma perlomeno qualche dubbio a proposito della designazione che può lasciare perplessi a livello di opportunità.

4 - Da Beppe Aghemo a Gianni Frara, passando per il giovane dirigente del Venaus Maicol Sibille, tragicamente perito in un incidente stradale nei pressi di Bruzolo, Paolo Accossato in questa puntata della sua rubrica "Il centromediano metodista, storie vintage di un calcio che fu" ci racconta il suo personalissimo Spoon River del mondo del pallone dei dilettanti.


Ho sempre cercato, ho sempre voluto che la mia vita non fosse imprigionata dentro lo schermo di un cellulare. Strumento certamente utile, ma sempre strumento. All’inizio del mio percorso in mezzo ai giornali il problema non sussisteva neppure perché alla fine degli anni ’80 i telefonini semplicemente non c’erano. Inutile dire che si chiamava per dettare il pezzo dalle cabine telefoniche, superfluo ricordare che i pezzi si scrivevano con la macchina da scrivere sulle ginocchia. Altri tempi, né migliori o peggiori. Soltanto altri. Magnificati dalla nostalgia che però non può essere l’unico criterio di giudizio. C’è un aspetto però di quei tempi che mi sono imposto di non abbandonare ed è la memoria della rubrica telefonica. Ovviamente non quella del cellulare ma la mia attraverso l’infinito elenco di numeri di telefono certosinamente accumulati durante gli anni e scritti su un’agenda. Sempre la stessa. Ormai consunta, rappresenta il costante esercizio mnemonico necessario a rintracciare un cellulare o un numero di casa. Nessun trasporto sulla rubrica del telefonino perché solo così ogni posizione nell’agenda, ogni singolo recapito riporta alla luce il volto del destinatario della chiamata ancor meglio della fotografia che appare sullo schermo una volta fatta partire la telefonata.

Numeri di casa ancora senza prefisso, telefonini con ancora lo 0 davanti al 347 o al 335, numeri di appena sei cifre. Insomma, sapori antichi per quanto scoloriti (e non solo dalla memoria, l’inchiostro non è eterno). C’è un altro motivo di questa necessaria persistenza della memoria attraverso la carta ed è riaffiorato in questi giorni leggendo la tragica scomparsa di un ottimo dirigente del Venaus, il giovane Maicol Sibille tragicamente perito in un incidente stradale nei pressi di Bruzolo. Ognuno ha il suo Spoon River degli affetti più cari, il luogo dell’anima in cui conserva le quotidianità perdute di una vita. Il mio è su quella agenda, è in quei numeri di telefono che non digiterò più perché so che suoneranno a vuoto. Di lì, a differenza della memoria di un cellulare, non si può cancellare nulla. Nessun hai deciso di rimuovere, sei sicuro di rimuovere, clicca ok.  Ripercorrere di tanto quelle pagine significa poter salutare ancora una volta chi non c’è più, una singolare visita nel grande cimitero degli amici dello sport dei dilettanti. Tutti insieme, per una volta.

Impossibile citarli tutti, qualcuno però magari ne serba condivisa la memoria. Ne citerò alcuni, emblema per tutti. Di Beppe Aghemo si ricorda la vulcanica esplosività di un terremoto capace di invadere il calcio dilettantistico in una estate di fine anni ’90. Aghemo e il Moncalieri, Aghemo e il calciomercato “berlusconiano”, Aghemo e il ritorno di una squadra torinese in serie C, quel campo di Testona, quei posteggi ai margini della strada, quell’impianto non proprio da C2, quello spareggio con il Legnano, quel Brucato-Claudio Sala-Brucato nell’anno dell’inizio della fine, quel Massara (sì proprio l’attuale ds del Milan) chiamato per salvare la squadra. E ancora prima la trionfale cavalcata dall’Eccellenza, le botte al termine della partita con la Sestrese. E poi l’avventura al Toro, più agra che dolce. Per me Aghemo era la disponibilità cordiale, la classe degli auguri di Natale, la competenza calcistica che passava in secondo piano per la vivacità del carattere. Un dirigente unico, per questo non replicabile.

Di Gianni Frara il burbero carattere faceva a pugni con la capacità di schierare in campo i giocatori, con Beppe Mosso si potevano passare pomeriggi al telefono con la sicurezza di non parlare mai a vuoto, a Beppe Manara si poteva telefonare in qualsiasi momento certi della risposta. Nel mondo del giornalismo c’è una figura, quella di Giovanni Capponi, che è stato mentore e pigmalione di una intera generazione di cronisti. Umiltà ed understatement che rendono grandi chi si fa piccolo per scelta, vocazione naturale a far crescere i giovani, proprio come gli allenatori di settore giovanile che potrebbero allenare in serie A ma scelgono un’altra modalità di insegnare di come si tiene la penna in mano. Il saluto più impossibile va invece a Massimo Dealessi, collega, amico e compagno di tante serate al mercato di Borgaro e non solo. Perché a poco più di quarant’anni è assurdo non vedersi più.                           

3 - Nel 1982 l’Italia vince i Mondiali, ma il Victoria Ivest è già da qualche anno che sta seminando per rendere fertile quel vivacissimo terriccio in Borgo Vittoria. Lo racconta Paolo Accossato nella terza puntata de suoi editoriali sulle storie vintage di un calcio che fu.


Giano Bifronte è una delle divinità più venerate della cultura latina. Rappresenta il passato ed il futuro e dunque nelle erme romane, le piccole colonne sormontate da una testa scolpita, è raffigurato con i due volti che guardano in direzioni opposte. Ciò che è stato rende in ogni caso più forti, ciò che sarà ha l’auspicio sereno della categoria della possibilità e dunque l’ipotesi di un compimento, della quadratura del cerchio. Esattamente a metà degli anni ’80 in via Paolo della Cella si guarda contemporaneamente al passato e al futuro: Nino Furnari padre più che padrone dell’Ivest orienta lo sguardo alle sue spalle e vede una delusione tanto più cocente quanto più subdola per la maniera in cui è arrivata. E allora guarda avanti, si ripromette che no, un inganno così torbido non accadrà più. A costo di tornarci là, in finale e questa volta entrare nella storia.

Capitolo uno: 1982, vale a dire ciò che è stato. L’Italia vince i Mondiali ma il Victoria (appellativo più che benaugurante) Ivest è già da qualche anno che sta seminando per rendere fertile quel vivacissimo terriccio in Borgo Vittoria. In società arriva anche Oberdan Ussello nel settore giovanile e proprio nel 1982, quando Rossi è ancora Paolo e non Pablito, approda in biancoblu anche uno che di successi se ne intenderà e non poco. La panchina degli Allievi tocca Salvatore Iacolino, scuola Juve alle sue prime esperienze da mister. Con tanti ragazzi presi in prestito dalla Juve l’Ivest diventa campione piemontese Allievi e va a Bari a disputare la finale per lo scudetto di categoria contro il Libertas Adile Tommaso Natale di Palermo, uno scioglilingua societario che nasconde insidie che vanno al di là delle acrobazie linguistiche. Internet non c’è, figuriamoci i telefonini, i giornali locali qui non arrivano e sapere qualcosa di una formazione Allievi distante 1500 chilometri è roba da spionaggio sovietico durante la Guerra Fredda dato che mandare osservatori a visionare i match è perlomeno ridicolo. Dalle voci e dai si dice che trapelano alla Sicilia arrivano così notizie non buone. Voci, più che altro, rumores sussurrati a mezza bocca ma quando gli indizi sono tanti, che diventino una prova poco ci manca. Non che si parli tanto della bontà o della forza degli avversari, quello lo deciderà il campo. Ciò che fa drizzare le orecchie a Furnari e all’Ivest sono le indicazioni date da mica uno qualunque. L’Ivest, come detto, in quel periodo è in orbita Juve e Cestimir Vykpalek, nome da spia dell’est ma in realtà giocatore prima, allenatore poi dei bianconeri e ora osservatore per conto di Boniperti telefona in sede Ivest per passare un’informazione spifferata niente di meno che da suo nipote Zdenek Zeman, all’epoca giovanissimo ed allenatore delle giovanili del Palermo. Il Boemo aveva avvisato che la squadra avversaria era nota in zona per strani armeggi, soprattutto a livello di tesseramenti. Date di nascita false, foto non corrispondenti ai nomi, insomma tesserini falsificati in modo da mandare in campo chi possa garantire un livello di gioco più elevato, non importa quanti anni abbia. Il dirigente accompagnatore dell’Ivest si chiama Martire, è un vigile urbano e prima della partita sfogliando i cartellini degli avversari nota infatti che ci sono diverse posizioni di calciatori irregolari. In pratica i documenti sembrano fasulli e con tutta probabilità in campo non va chi è segnalato sulla distinta. L’arbitro però fa orecchie da mercante, non è mica un giudice, il caldo e il campo in asfalto (sì, in asfalto) fanno il resto, fanno l’1-0 per i Siciliani. Sterile il rammarico tanto quanto il reclamo, respinto, inoltrato alla Figc.

Capitolo due, 1987: ciò che sarà. Se il passato ha il sapore di forte agrume e l’ulcera di una sconfitta viene continuamente stimolata dal sale dell’ingiustizia non c’è medicina migliore che rimboccarsi le maniche e guardare avanti. L’altra faccia di Giano non si perde d’animo ed orienta lo sguardo al 1987. L’Ivest non molla, non lascia, anzi raddoppia e nel giro di cinque anni eccolo lì dove un lustro prima si era mangiato le mani. Ancora in finale nazionale Allievi, questa volta contro una squadra romana. A pochi giorni dal primo scudetto del Napoli di Maradona, l’Ivest torna a un gradino dal tetto d’Italia, sempre nella categoria Allievi. Furnari ha iniziato a strizzare l’occhio al Toro e allora in panchina c’è Gigi Fantinuoli, in campo Marcello Albino, più di 400 presenze tra i professionisti in carriera, e Benny Carbone. Carbone, che ha appena percorso la spina dorsale dell’Italia da Bagnara Calabra finisce al Toro ma è ancora troppo piccolo e gracile. Il responsabile dei giovani granata Zambruni chiama allora Furnari e gli chiede di tenerlo. Le sue finte però stordiscono, i suoi dribbling sono lo schiocco di uno scudiscio che percuote il terreno. Per cui quando Fantinuoli lo vede, gli bastano due palleggi ed un paio di azioni per avere le idee chiare. E così Carbone diventa il perno dello scudetto ivestino che arriva cinque anni dopo quello scivolato via dalle mani per colpe non proprie. Per dare un’idea ci vorranno altri ventisei anni prima che una squadra piemontese, la J Stars, rivinca il titolo.

2 - La seconda puntata della rubrica "Il centromediano metodista", a cura di Paolo Accossato, racconta cento anni di Barcanova, una cifra tonda che non è una ricorrenza solo per i rossoblù, ma per tutti coloro che amano il calcio, perché il Barcanova è un nome che si appiccica addosso a tutti quelli che dal secondo dopoguerra masticano pane e calcio a Torino.


Millenovecentoventi. Scriverlo per lungo, scriverlo per esteso dà ancora di più l’idea dell’elasticità del tempo. Sembra poco, sembra ieri ed invece sono già passati cento anni. Cifra tonda, cifra da ricorrenza tanto più rimarcabile se si pensa quante società in questo periodo sono nate cadute morte rinate rimorte e chi più ne ha più ne metta nel ginepraio burocratico e notarile di fusioni, accorpamenti e cambiamenti di denominazione tanto coloriti quanto pittoreschi per cui l’acronimo U.S. che diventa A.C. cambia tutto sulle carte bollate per poi non cambiare realmente alcunchè sul campo. Ad ogni modo, comunque. A scandagliare così lontano nella memoria e negli archivi non c’è il rischio di trovare l’affollamento onomastico che oggi caratterizza il mondo del calcio. Juve e Toro, Vanchiglia e Cenisia e poi poco o nulla d’altro. Nasce allora quella che per anni e per blasone venne considerata la terza squadra di Torino e per cui non basterebbe un libro a tracciarne i confini. Millenovecentoventi, allora, lato sinistro della Stura, regione Barca. Il trenino Ghigo porta quello che è un nucleo abitativo di pescatori ed artigiani a Torino. Avanti e indietro durante la settimana: quelli che vivono dove la città ancora non c’è ancora mentre nel week end il percorso è opposto e l’Italia che cerca di rialzarsi dalla Guerra da Torino si sposta alla barca per mangiare pesce nelle prime trattorie o fare merende sinoire là dove la strada si biforca per andare a Settimo o San Mauro. Proprio da uno di questi ristoranti in strada Settimo non è raro vedere uscire un gruppo di ragazzi. Vanno a giocare a pallone e non è una stranezza osservare percorrere due chilometri di sentieri una ventina di giovani in tenuta da calcio (per quanto ai tempi si potesse parlare di casacche) in ogni condizione atmosferica. Il campo, il primo campo del Barcanova ai bordi della Stura è ben lontano dall’avere spogliatoi e allora ci si cambia alla trattoria Meda che funge anche da prima sede sociale. Pantaloni corti e cappotto in inverno perché il tragitto non è così breve. Il labaro è benedetto nella cappella della Cascina “La Magra” e così nasce l’U.S.Barca. Tra pochi anni sarà Barcanova, un nome che si appiccica addosso a tutti quelli che dal secondo dopoguerra masticano pane e calcio a Torino. Non c’è altra società, almeno negli ultimi sessanta anni che, pur non avendo mai gareggiato a livello di primato cittadino con granata e bianconeri, non faccia venire immediatamente in mente il connubio con la città. Sarà per la Coppa Primavera, per quel campo in via Centallo dove l’erba non ne vuole proprio sapere di crescere, per quella sua fisionomia di borgata, per la continuità della sua azione, per chi è uscito da quegli spogliatoi e chi ci è passato. Sarà per tutto questo. Intanto ancora oggi se si va fuori regione e si chiede di nominare una squadra di settore giovanile in riva al Po, uno dei primi nomi è Barcanova. Che nel 2020 compie cento anni, non sempre facili, non sempre ridenti. Ad esempio, il Fascismo mette a tacere i rossoblù che ritornano a vagire a guerra finita. L’input arriva da Giovanni Necco (Nekita), uno del borgo con un fratello (Cichin) giocatore nel primo Barca, che trasferisce insieme a Raviola e Beccuti la squadra nell’unico campo ancora disponibile, quello della Parrocchia San Giacomo, incastrata tra Strada Settimo e strada San Mauro. Ancora oggi di fianco alla Chiesa resta il campo dell’Oratorio in uno spazio erboso con le porte da calcio. E’ un calcio povero, discreto nel suo desiderio di affermare un’esigenza di libertà che si esprime con il profumo dei campi. Dal chiuso dei rifugi all’aria aperta, dal buio della paura ai colori della campagna e del fiume. E’ un calcio che però esige la sua dignità se è vero che con orgoglio i cromatismi sociali continuano ad essere rosso e blu e se già dalla prima riunione si rivendica il diritto di un campo. Che arriva, ed anche in fretta perché un altro appassionato del borgo, Filippo Rosso (Bertu) mette a disposizione una spianata in via Centallo che diventa la casa del nuovo Barcanova. Non è ozioso citare i soprannomi perché è da lì che nasce il Barcanova, dal senso di appartenenza a quegli orti, da quel sentimento di intimità quasi sensuale con il luogo di nascita. I fondatori sono dunque pietre di quel campo sterrato che resisterà fino all’alba del nuovo millennio.

1 - La prima puntata della rubrica "Il centromediano metodista", a cura di Paolo Accossato, racconta un luogo che è ed è stato crocevia del calcio piemontese, dalla politica sportiva al calciomercato. Un luogo a cui oggi però si guarda (anche) con un po' di nostalgia, poiché non ospita più il calciomercato, travolto da una tecnologia che ha soppiantato il piacere di ritrovarsi a trattare e parlare di calcio dilettantistico, tra ricordi del passato e speranze per il futuro.


Se il calcio è una liturgia e la Messa cantata necessita della sua Cattedrale - ovviamente lo stadio - esistono altri spazi dove si completa e trova piena definizione il mondo del pallone. Sacrestie laiche dove si prepara la funzione, luoghi simbolo che possono apparire lontani anche anni luce dal prato un tempo unicamente erboso ed ora di verde sintetico colorato. Stanze dove l’artigiano opera, il faber costruisce il manufatto, l’orefice fonde nel crogiolo il liquido oro al fine di forgiare il prezioso manufatto. Fabbriche, fucine dove le squadre prendono forma, i tasselli del puzzle si sposano diventando immagine, il contorno si trasforma in figura. Lì spesso si decidono i destini di una stagione, lì si vince o si perde un campionato ancor prima di tirare il primo calcio dell’anno. Fino a qualche anno fa avevano le solide certezze delle mura e delle stanze dei grandi hotel milanesi prima che la società liquida in cui siamo immersi diluisse in mille rivoli quegli approcci, quelle proposte, quei dinieghi, quei sì e quelle firme che davano il via al più classico dei matrimoni con scadenza. E’ il cellulare, bellezza e allora di giorno in giorno, di anno in anno quello che ancora oggi il tifoso chiama calciomercato si è progressivamente trasferito in luoghi altri, effimeri come la solidità delle fondamenta di un contratto ed invisibili agli occhi dei più, a meno di qualche telecamera malandrina e curiosa posizionata fuori dai ristoranti alla moda. Certo, nel calcio dei professionisti esiste ancora un luogo fisico dove gli addetti ai lavori intavolano parole ma è più che altro specchietto per le allodole, depistaggio per sviare il cercatore di notizie che comunque sa che i veri affari si fanno altrove. Un cofanetto privo di monili, una scatola vuota di cioccolatini, quasi un autoinganno iconico al fine di placare i sensi di colpa per aver portato via, portato lontano gli intrighi e i sogni pallonari di piena estate che tanto piacciono al tifoso. Un tempo, neppure troppi decenni fa, anche il pallone del Piemonte aveva nel Torinese un luogo tutt’altro che simbolico dove in maniera talvolta ludica ma ben più spesso seria ci si provava a specchiare nel calcio di un certo livello. Era a Borgaro, era all’hotel Atlantic per parecchi lustri sede di quello che si chiamava il “mercatino” dei dilettanti, dove quel diminutivo un po’ declinava il calcio diverso da quello dei Baggio e dei Del Piero, un po’ però offendeva gli addetti ai lavori che si trovavano una volta alla settimana per definire passaggi di casacca dall’Eccellenza in giù. C’erano i tavolini nell’ampia sala che di anno in anno diventava sempre più stretta nella metratura e più ampia per il sempre minor numero di direttori sportivi. C’era il giocatore che si proponeva, qualcuno aveva anche il curriculum scritto a mano con le squadre in cui aveva giocato e le reti segnate in carriera. Tanto, internet non c’era ancora, i social erano di là da venire e solo la memoria e la frequentazione dei campi risultavano le vere discriminanti. Alcuni papà accompagnavano i giovani figli come se fosse il primo giorno di scuola: “Vedi, quello là è il mister a cui ti voglio presentare, adesso appena finisce proviamo ad avvicinarlo, io ho giocato con lui due anni in Promozione”. Ai tavoli ci si sedeva spesso e ai vecchi marpioni della categoria si aggiungevano i giovani giornalisti che, taccuino alla mano ma in realtà ben nascosto, settimanalmente chiedevano indiscrezioni o indirizzi. Le agende si riempivano di numeri, di giovedì in giovedì gli sguardi diffidenti si scioglievano e di quando in quando arrivava pure la soffiata giusta. E poi in un’estate del 1997 arrivò lui a scuotere il tacito torpore delle contrattazioni dei dilettanti. Il ciclone Beppe Aghemo si materializzò con quella che da lì a qualche anno sarebbe stata l’icona stessa del vulcanico presidente del Moncalieri, poi passato al Toro. La valigetta piena di denaro con cui Aghemo si presentò all’Atlantic e si portò a casa Mauro De Riggi, all’epoca uno degli attaccanti più forti del Piemonte, è una di quelle leggende che si raccontano ai nipoti, un po’ verità un po’ Keyzer Soze. All’Atlantic si andava forse più per ciacolare, per sponsorizzare un talento del settore giovanile, per dire all’ex compagno ora ds che in quella squadretta di periferia giocava uno veramente forte. Da una quindicina d’anni l’Atlantic non ospita più il calciomercato, travolto dai rapidi Whatsapp e da intermediari vari. Non avrebbe senso, dicono, con il calcio di oggi. E’ vero, non c’entrerebbe nulla. E proprio per questo è meglio così.