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Mercoledì, 23 Settembre 2020 11:03

Siamo tutti River: La storia del River Mosso, un po’ la storia del nostro calcio

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7 - Ritorna il nostro (e il vostro) Paolo Accossato anche in questa nuova stagione, con la stessa rubrica a cui ci siamo affezionati nei mesi scorsi, ma con sempre nuovi contenuti e storie da un tempo in cui il calcio era cosa molto diversa da quello che conosciamo ora, seppur in qualche modo uguale: ecco a voi il "Il centromediano metodista, storie vintage di un calcio che fu", per una nuova entusiasmante stagione di calcio e scrittura.


Pochi, pochissimi chilometri più a nord di piazza Sofia c’è un triangolo delimitato dalla ferrovia Torino-Milano, corso Giulio Cesare e lo Stura. Si chiama Pietra Alta, è un quartiere nel quartiere e da lì, da quel triangolo di campi e cascine, più che altro, si passa. Per andare a Milano, per andare a Settimo, per andare altrove. Nel 1951 a Pietra Alta difficilmente ci si ferma, le case non sono poi così frequenti. Più facile trovare casolari e fattorie: Torino è lontana e gli abitanti locali per andare in centro dicono che vanno in città. Non ci sono ancora le due torri che oggi accolgono il visitatore che arriva dall’autostrada Torino-Milano, non c’è ancora il supermercato Auchan. Campi più che altro ma anche un piccolo feudo urbano, una macchia di cemento che prende il nome di Villaggio Snia, costruito apposta per gli operai della fabbrica chimica.

Alla domenica, però, costi quel che costi si gioca in un torneo Uisp e la squadra è composta dai figli degli operai impiegati alla Snia Viscosa. Vivono tutti al Villaggio Snia, esperimento urbanistico e sociale a metà tra il paternalismo dei villaggi operai di fine Ottocento e il tentativo di una razionalizzazione scientifica del lavoro. Prima di tutto c’è da darsi un nome: al Comunale tre settimane dopo la tragedia di Superga si era giocata una partita tra una selezione dei migliori giocatori di serie A, il “Torino simbolo”, e il River Plate con l’incasso devoluto alle famiglie dei giocatori periti nello schianto. Quei ragazzi della Snia si innamorano del tango calcistico argentino fatto di tocchi felpati e di una confidenza quasi sensuale con il pallone. In più in quel River c’è un giovanissimo Di Stefano. Così in un primo momento il Villaggio Snia diventa Buenos Aires e il selciato con le pietre a delimitare il campo si trasforma nel Monumental. Poi quando c’è da diventare squadra, quando c’è da dare un nome a quello stare insieme, allora non ci sono dubbi: noi siamo come il River Plate, noi siamo il River. Anzi “Nos somos River”, all’argentina e quel “somos” diventa anagramma che fa memoria. Perché a Pietra Alta in strada Cascinette è nato Luigi Mosso, un giovane partigiano ucciso dalle forze nazifasciste nel 1944 sulle montagne nei pressi di Corio. Luigi era un fresatore e quel ragazzo di ventitre anni caduto in guerra diventa un simbolo per quei giovani che vivono in un quartiere a fortissima presenza operaia dove l’appartenenza sociale si fonde al senso civile e alla partecipazione politica. Al River si aggiunge dunque Mosso: è un nome un po’ strano, quasi criptico ma da portare in giro per Torino con grande orgoglio, lo stesso con cui il nipote di Luigi segue il River ancora oggi dalla sua ferramenta proprio di fronte al campo sportivo.

E poi, le maglie. Qui è tutto decisamente più facile perché i colori si disegnano da soli. Maglia bianca, banda rossa trasversale perché “Nos somos River” e così l’identificazione con gli argentini è totale. Non siamo però in serie A e l’unico gioco di casacche presto si sbiadisce a forza di lavaggi delle mamme (lavanderia? arriverà negli anni ’80) tanto che la stagione iniziata con una riga rossa brillante si conclude con un rosa pallido che dilaga su tutto il tessuto. Così si architetta, potenza della fantasia, uno stratagemma. Per l’anno successivo le maglie sono bianche e su di esse si cuciono bottoni a pressione su cui fissare una striscia di stoffa che si può dunque staccare al momento del lavaggio.

Questi sono i primi vagiti del River Mosso, una delle tante squadre che a partire dal dopoguerra vestono di calcio la nostra città. Una delle tante, si potrebbe dire, ed in effetti tante sono veramente a ruota del Cenisia, del Barcanova, del Vanchiglia, le madri di tutte le società metropolitane. Il fatto che ciascuna abbia una storia, un nome, un perché del colore, ad esempio, delle maglie dice che nulla è per caso. Ovunque ma anche nel microcosmo pallonaro sotto la Mole. Se ci sono sodalizi con nomi di partigiani, se c’è un motivo perché le casacche del Cenisia sono viola e quelle del Venaria verderancio, se esiste una ragione per cui il River Mosso poteva esistere solo a Pietra Alta, tutto questo significa che abbiamo una storia alle nostre spalle. Usando il plurale, si intende ciascun dirigente che abbia sudato su un campo, ciascun presidente che abbia investito in un impianto, ciascun tifoso che abbia portato una bandiera sulle tribune, ciascun giornalista che abbia scritto tre righe su una partita. Tutti quanti hanno fatto parte di una storia, una piccola storia magari di un microcosmo che oggi non c’è più ma senza il quale anche tutto il resto avrebbe assunto colori e forme diverse.

Più che approdo della nostalgia è constatazione di appartenenza. Ad un mondo, quello del pallone dilettantistico, oggi troppo spesso violentato da intromissioni dei grandi: imitazioni, narcisismi, specchietti per allodole. Epigoni surrogati e null’altro. Che esistono in quanto altri esistono. Che magari ci sono ma che non sono. L’inizio della storia del River Mosso, una delle tante, insegna non tanto a ritirare fuori i “Ti ricordi?” ma a chiarirsi una volta meglio chi eravamo. Tutti, anche quelli che all’epoca non c’erano e che oggi hanno altre priorità. Nessuno chiede di tornare al tessuto di quelle maglie, nessuno implora il campo in terra battuta. Ma come quei ragazzi hanno detto “Nos somos River”, anche noi oggi dobbiamo convincerci (e senza vergogna) che siamo un pezzo di quelle squadre.

Ultima modifica il Mercoledì, 23 Settembre 2020 11:10

(Torino, 1970) Giornalista pubblicista, dal 1989 collabora con “La Stampa” nell’ambito del calcio dilettantistico. Dal 1996 è docente di materie letterarie presso il Liceo Valsalice in cui dal 2006 svolge le mansioni di Vicepreside. E’ autore del libro “All’ombra dei giganti. Storie di quartieri e di calcio giovanile nella città di Juve e Toro” (Bradipolibri).

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