Venerdì, 10 Maggio 2024
Individual soccer school

Individual soccer school (24)

INTERVISTA - Il metodo Sfera e il concetto di anti-fragile spiegati dal responsabile dell'area psicologica di Juventus, che ha partecipato a 5 Olimpiadi come spciologo ufficiale del CONI: "L'allenamento individuale è un acceleratore di cambiamento e di apprendimento, in grado di strutturare quella relazione di fiducia che è alla base di tutto".


Buongiorno professore, partiamo dalla base: che cos'è la psicologia dello sport e di cosa si occupa?

"È una branca della psicologia e si rivolge agli atleti, agli addetti ai lavori e a chiunque pratichi sport, agonistico e no, individuale e di squadra. Ha come obiettivo la valorizzazione delle risorse mentali che si mettono in atto nella pratica sportiva".

Lei è l'ideatore del "Metodo Sfera", come è nato e in che cosa consiste?

"Sfera è stato sviluppato nell'Università di Torino, presso l'unità operativa di Psicologia dello sport. Nasce da una precisa domanda: esistono fattori di prestazione comuni a tutti gli sport che possono essere misurati e quindi oggetto di allenamento? Muovendo da ciò abbiamo messo a punto un sistema di osservazione della prestazione basato su cinque fattori fondamentali, da cui l'acronimo "Sfera": sincronia, forza o punti di forza, energia, ritmo, attivazione".

Ci spieghi meglio.

"Con sincronia si intende la piena connessione tra corpo e mente: ciò che io penso viene messo in atto dal mio corpo; potremmo dire che è un sinonimo di concentrazione. Punti di forza sono di tipo fisico, tecnico e mentale, ovvero le capacità di cui il performer, il calciatore o l'individuo, è del tutto consapevole. Quando si è in gara occorre avere la capacità di identificarsi in toto con i propri punti di forza. Energia è la quantità di forza utile per svolgere al meglio un certo compito, nel calcio ad esempio la riuscita di un tiro si basa sull'equilibrio tra poca e troppa energia data alla palla. Ritmo è il fattore della qualità; ad esempio, una squadra per esprimersi al meglio deve muoversi in cui tutti i singoli abbiano il medesimo ritmo. E per gestire questo ritmo - esterno al singolo - si deve essere in grado di controllare il ritmo interno: il battito cardiaco, il ritmo respiratorio, eccetera. Con attivazione si intende il valore aggiunto, la spinta motivazionale che ognuno ha, quel fuoco dentro che permette di superare i limiti, di andare al di là di quella che può essere definita normalità. Avere una buona attivazione significa mettersi in contatto con quella motivazione intrinseca per cui si fanno le cose per il piacere di farle e non per semplice dovere".

Lei e il suo gruppo di ricerca avete messo a punto il costrutto di "antifragilità" nello sport: cosa si intende con questo termine e come mai è così importante nel calcio?

Il termine è stato proposto nel 2013 dal celebre scienziato americano Nassim Nicholas Taleb (noto al grande pubblico per la "Teoria del cigno nero"). L'antifragilità è la capacità dell'essere umano di trasformare in modo sistematico i limiti in opportunità. Questo concetto per molto tempo è stato solo un bellissimo slogan senza applicazione concreta. Tale ha avuto il grande merito di codificare questa capacità dell'essere umano che va ben oltre la cosiddetta resilienza. Mi spiego meglio: il resiliente, quando incontra un ostacolo, lo supera raggiungendo così l'obiettivo. Per l'anti-fragile, invece, il superamento dell'impedimento genera un obiettivo superiore, ovvero usa l'ostacolo come meccanismo propulsivo per la crescita: personale o, nel caso del calcio, della squadra. Io e il mio gruppo di lavoro abbiamo fatto evolvere il concetto di anti-fragilità rispetto alla proposta iniziale di Taleb; abbiamo infatti validato un protocollo - al momento unico al mondo - che oltre a misurare l'anti-fragilità propone una specifica modalità di allenamento di questa capacità".

Torino, Pechino, Vancouver, Londra, Pyongyang: lei ha partecipato direttamente a cinque olimpiadi in qualità di psicologo ufficiale del CONI: che tipo di esperienza è stata e che atmosfera si respira all'interno del Villaggio olimpico?

"È stato un grandissimo privilegio: stare in un Villaggio olimpico durante le Olimpiadi significa avere a disposizione un laboratorio straordinario dove tutti i concetti teorici trovano la loro applicazione pratica e dove si ha la possibilità di osservare e di entrare in contatto con una moltitudine di atleti diversamente non accessibile. Molti dei costrutti e dei concetti che sono stati adottati dalle squadre nazionali e dai singoli atleti derivano proprio dai laboratori olimpici".

Qual è l'importanza attribuita alla psicologia dello sport nelle varie discipline? Come cambia la gestione mentale tra uno sport individuale e uno sport di squadra?

"Di base ogni atleta - indipendentemente dal tipo di sport che pratica - deve conoscere i meccanismi mentali fondamentali per performare al meglio. Tra sport individuale e di squadra, ci sono delle differenze che riguardano il riconoscimento dei fattori di cui abbiamo parlato prima. Faccio un esempio rispetto alla sincronia: nello sport individuale, io posso riconoscere di essere in sincronia quando mi sento totalmente focalizzato su quello che sto facendo; in una squadra, quando questa comunica al suo interno nel modo migliore, tale che tutti siano ben allineati".

Pensiamo allo spogliatoio di un top club: vi sono grandi giocatori ma soprattutto grandi personalità a confronto. Come si gestisce a livello psicologico e motivazionale una tale realtà?

"Lo spogliatoio va considerato come un luogo sacro per i giocatori, un luogo protetto, a porte chiuse, in cui confrontarsi liberamente, e dove di fatto a volte si verifica uno scontro tra leadership, dovute anche alla presenza di etnie diverse. A meno che non venga chiesto un supporto esplicito, il compito dello staff di una squadra è proteggere lo spogliatoio nella sua integrità e sacralità, favorendo l'espressione della autorevolezza individuale dei giocatori di maggiore personalità e che divengono così i leader riconosciuti. Detto questo, il lavoro effettuato con noi dai singoli giocatori fuori dallo spogliatoio è del tutto comparabile a quello svolto negli altri sport dove si lavora sul riconoscimento dei cinque fattori di SFERA. Ad esempio, si lavora sul fattore più debole per renderlo più forte proponendo esercitazioni dedicate di tipo tecnico o atletico".

Affrontiamo ora il rapporto bambini-genitori: come gestire le aspettative di un genitore in rapporto a quelli che sono i reali obiettivi di crescita previsti da un progetto tecnico come quello previsto dal nostro centro di formazione?

"Si tratta di una questione molto importante: ritengo che una realtà formativa come la vostra debba avere anche i compiti di proteggere le qualità del bambino e favorire l'interazione tra genitori e ragazzi nel modo migliore. I genitori devono essere educati per interagire nel migliore dei modi con i propri figli: per aiutarli a realizzare il loro sogno è necessaria una comunicazione efficace. Siamo in un'epoca in cui - per la prima volta - vi sono tre soggetti che devono collaborare di comune accordo: genitori, figli e allenatore, là dove in passato il rapporto era allenatore/atleta e genitori/atleti. Queste tre entità devono relazionarsi con l'obiettivo di crescita armonica dei figli".

Nel nostro centro di formazione, uno dei feedback più ricorrenti che riceviamo al termine della lezioni è "mi sento più sicuro". Quanto ritiene possa essere importante un lavoro individuale per consolidare la sicurezza nei propri mezzi?

"È fondamentale. E per un motivo molto semplice: per essere allenabile un calciatore (come un qualsiasi atleta) deve avere volontà e capacità di apprendere: in loro assenza diventa non-allenabile. Ne consegue che il lavoro individuale è fondamentale: permette di potenziare l'apprendimento, aspetto questo che negli allenamenti collettivi non può essere bilanciato, tale per cui qualcuno potrà apprendere le cose in modo più consistente, qualcun altro meno. Per questo motivo ritengo importantissimo l'allenamento individuale. lo considero un acceleratore di cambiamento e di apprendimento, in grado di strutturare quella relazione di fiducia che è alla base di tutto".

Il metodo ISS si basa sul rapporto "one to one" tra istruttore e allievo. Quanto sono importanti per il primo, le capacità comunicative e l'utilizzo corretto dei feedback?

"Sono imprescindibili. L'istruttore ha un potere immenso che gli deriva dalla capacità comunicativa; immenso in positivo ma anche in negativo: può distruggere una carriera se usata nel modo scorretto. L'utilizzo del feedback di per sé è potenziante: se letto nell'ottica della prestazione presenta punti di forza sull'autoefficacia; se ben utilizzato è in grado di generare la piena fiducia dell'atleta nei confronti del suo allenatore, di aumentare la consapevolezza e soprattutto potenziare l'apprendimento. Feedback è davvero un concetto chiave e bisogna saperlo utilizzare al meglio: grazie alla ricezione dei giusti feedback il ragazzo/atleta impara a parlare a sé stesso: quindi a usare un auto-dialogo auto-potenziante in grado di farlo lavorare in piena autonomia nel suo futuro, non solo nello sport del calcio ma in qualsiasi ambito lavorativo".

 

CHI E' IL PROFESSOR GIUSEPPE VERCELLI 

Il professor Giuseppe Vercelli è psicologo e psicoterapeuta, docente di Psicologia dello sport e della prestazione umana presso l'Università degli Studi di Torino. Ha insegnato presso l'Università Bocconi di Milano e presso la Facoltà di economia dell'Università di Torino. È autore di pubblicazioni scientifiche e divulgative tra le quali i saggi "Vincere con la mente", "L'intelligenza agonistica" e recentemente "Antifragili".

È responsabile dell'area psicologica di Juventus F.C e dell'area psicologica delle Federazioni FISI, FICK e FIPAV. Ha partecipato alle Olimpiadi di Torino, Pechino, Vancouver, Londra e Pycongchang come psicologo ufficiale del CONI. Dirige il Centro di psicologia dello sport e della prestazione umana "Umbro Marcaccioli" presso l'ISEF di Torino ed è responsabile dell'area psicologica del centro clinico J Medical di Juventus F.C.

Con il suo team ha sviluppato e divulgato il modello SFERA per l'ottimizzazione della prestazione e l'AFO (anti-fragile questionnaire).

INTERVISTA - L’ex attaccante oggi è allenatrice: “Il metodo ISS dà a ogni atleta una maggiore padronanza dell'attrezzo in tutte le situazioni, ciò si traduce in una maggiore consapevolezza in campo, saper affrontare le varie fasi di gioco nel migliore dei modi con una conoscenza tecnica che permette di padroneggiare spazio e tempo sul rettangolo verde”.


Ciao Melania, partiamo dal presente: dopo una vita passata sui campi da calcio, cosa fa la Melania di oggi?

“Dopo aver lasciato il calcio giocato ho intrapreso la strada da allenatrice, mi sono dedicata per diversi anni al settore giovanile; lavorare sulla crescita delle piccole mi ha arricchita molto. Poi ho deciso di provare a lavorare con ragazze più grandi: ad oggi alleno la primavera femminile, il lavoro è totalmente diverso rispetto a quello del settore giovanile, ma assolutamente gratificante”.

Hai giocato tantissime partite ad alto livello, ce n'è una a cui sei particolarmente affezionata? Perché?

“Le partite sono state tante, sia con il club che con la nazionale, ma quella a cui sono affezionata particolarmente, sia a livello emozionale che di campo è sicuramente la semifinale di Champions con il Verona. Perché? Bastava semplicemente uscire dal tunnel per arrivare sul campo e vedere uno stadio pieno di gente, ai tempi non eravamo sicuramente abituate a palcoscenici del genere… e poi perché una semifinale era un traguardo davvero difficile da raggiungere, ma un grande gruppo e la determinazione lungo tutto il cammino sono stati gli ingredienti che ci hanno permesso di vivere quella notte indimenticabile”.

Una vita da attaccante: come è cambiata l'interpretazione del ruolo negli ultimi anni di calcio femminile? Quali differenze o analogie vedi tra te e le attaccanti di oggi?

“Credo che l'attaccante di oggi abbia modificato più che cambiato i propri compiti e movimenti, nel senso che oggi cambiano i sistemi e i principi di gioco e di conseguenza anche il ruolo dell'attaccante è diverso rispetto a qualche anno fa: attaccante non è più solo quello che realizza, ma è un giocatore in grado di fornire presenza fisica, tecnica e gioco per la squadra”.

Che differenza trovi tra il calcio femminile italiano e quello europeo o mondiale? Il gap che li separa è ancora così ampio?

“Penso che la differenza tra il nostro calcio e quello europeo stia proprio nella base. C'è una cultura che va cambiata, bisogna mettere le giocatrici nelle condizioni di poter giocare ad alti livelli con le strutture giuste, con il lavoro, la mentalità che serve, l'attenzione, i media, gli sponsor… Sono tutti aspetti legati tra di loro che limitano la crescita di questo movimento. È chiaro che poi il risultato sul campo è diverso, i ritmi sono diversi, il gesto tecnico è diverso. Anche se la perseveranza (una delle migliori caratteristiche che noi donne abbiamo) non ci manca, serve tanto altro. Certo è che col passaggio al professionismo qualcosa è cambiato, ma bisogna dare ancora più possibilità di crescita”.

Al giorno d'oggi si fa fatica ad associare il termine "successo" a valori come il sacrificio e la fatica; la realizzazione professionale viene intesa come un dono piovuto dal cielo. Raccontaci come hai raggiunto i tuoi traguardi, la tua figura può essere considerata come fonte ispirazione per tante giovani calciatrici: quale consiglio ti senti di dare?

“Questo è un argomento che a mio parere deve essere trattato con assoluta importanza. È necessario far capire ai giovani che qualsiasi obiettivo (sportivo e non) deve essere raggiunto con i propri mezzi, con tutte le difficoltà del caso, non con la mediazione di altri o attraverso strade apparentemente meno tortuose. Ho ottenuto qualsiasi cosa attraverso il sacrificio, spesso ho fatto delle rinunce e ci sono state difficoltà lungo la strada. Ho dovuto organizzarmi tra calcio e scuola con orari a volte assurdi, ma era semplicemente quello che volevo e rifarei tutto senza ombra di dubbio. Nulla si ottiene per caso, niente ci viene regalato: bisogna volerlo, crederci e lavorarci, ogni giorno. Il consiglio che posso dare alle giovani è di avere coraggio e forza per raggiungere i propri obiettivi”.

Hai sperimentato il metodo ISS e fai parte del progetto ISS women: cosa ti ha convinto a credere nel nostro lavoro?

“Non c'è stata nessuna opera di convincimento. È bastato vedere il lavoro sul campo: un metodo di lavoro importante, intenso, dettagliato. Credere nella crescita e nel miglioramento continuo di ogni giocatore o giocatrice, questo per me è importante”.

Hai avuto una grande carriera, pensi che l'esistenza di un centro di formazione come il nostro in tempi non sospetti avrebbe potuto giovare alla tua crescita?  Quale può essere il contributo di ISS al movimento calcistico femminile?

“Assolutamente sì, credo che un lavoro personalizzato secondo il metodo ISS, a suo tempo, mi avrebbe messa nelle migliori condizioni in diverse dinamiche di gioco. Il contribuito che possiamo dare a ogni atleta è una maggiore padronanza dell'attrezzo in tutte le situazioni, ciò si traduce in una maggiore consapevolezza in campo, saper affrontare le varie fasi di gioco nel migliore dei modi con una conoscenza tecnica che permette di padroneggiare spazio e tempo sul rettangolo verde.

Per la prima volta nella storia il calcio femminile italiano si affaccia al professionismo, ma sono figure come la tua che hanno contribuito a dare lustro al movimento prima di raggiungere questo status. Cosa hai provato una volta appresa la notizia?

“Diciamo che abbiamo dovuto lottare molto più del dovuto per ottenere il minimo che ci spettasse..sono orgogliosa di avere fatto parte di questo lungo e difficile percorso che ci ha condotto a nobilitare una "professione" a tutti gli effetti che incredibilmente non veniva riconosciuta come tale. Sono contenta del risultato raggiunto: un traguardo importante per le atlete di oggi e per le generazioni future, ma non deve essere la fine”.

Qual è la giocatrice che più ti ha impressionato nell'arco della tua carriera?  E la calciatrice più forte del momento?

“Ci sono state diverse compagne che mi hanno impressionato, ma se devo fare due nomi dico Chiara Gazzoli e Patrizia Panico. Figure importanti che da giovane mi hanno ispirato. Condividere il campo con loro mi ha permesso di crescere come giocatrice rubando ogni giorno un po' della loro preziosa esperienza. Tra quelle che ho affrontato dico senza dubbio Marta e Lotta Schelin: semplicemente di un'altra categoria. Oggi invece non credo ci sia una sola giocatrice, ci sono tante giovani italiane e non che stanno facendo molto bene. Il futuro del calcio femminile è in ottime mani, o meglio in ottimi piedi”.

Quali differenze trovi tra l'allenamento individuale e quello di gruppo? Hai portato parte del nostro metodo nelle sedute di allenamento della tua squadra?

“Nell'allenamento individuale si lavora molto nel dettaglio e ancora di più sulla correzione. Naturalmente anche nel lavoro di gruppo ci sono queste due componenti, sta all'istruttore o istruttrice avere la capacità di riportarle durante la seduta, magari anche attraverso esercitazioni situazionali. Ricordiamoci che ogni situazione di gioco è un insieme di gesti tecnici che all'interno di essa possono e devono essere migliorati.  Ho portato parte del nostro metodo negli allenamenti della mia squadra e i risultati si sono visti. Naturalmente è servito un periodo di adattamento per tutte le atlete che non erano abituate a lavorare molto dal punto di vista tecnico, ma ora a distanza di tempo i risultati sono evidenti”.

LA CARRIERA

Melania Gabbiadini (Calcinate, 28 agosto 1983) è un'ex calciatrice italiana, di ruolo attaccante, sorella maggiore di Manolo, giocatore della Sampdoria.

Con l'AGSM Verona ha vinto il campionato italiano per cinque volte, delle quali tre consecutive (2004-05, 2006-07, 2007-08, 2008-09, 2014-15), due Coppe Italia (2005-06, 2006-07) e tre Supercoppe italiane (2005, 2007, 2008). Nel campionato italiano ha segnato 233 reti in 276 presenze. Ha fatto parte della rosa della nazionale italiana in quattro edizioni del campionato europeo (Inghilterra 2005, Finlandia 2009, Svezia 2013, Paesi Bassi 2017), vestendo la maglia azzurra della nazionale in 121 incontri e realizzando 51 reti.

A livello personale è stata nominata calciatrice dell'anno AIC per quattro anni consecutivi dal 2012 al 2015, corrispondenti alle prime quattro edizioni del premio. Nel 2016 è stata inserita nella Hall of Fame del calcio italiano, categoria "calciatrice italiana". È stata premiata col Pallone Azzurro nel 2016 come miglior calciatrice italiana.

INTERVISTA - Il campione più titolato nella storia del karatè (il cui figlio gioca nella Spal) si racconta: “Credo fortemente che far crescere i singoli porti l'intera squadra a essere migliore. In questo senso ho sempre pensato che il lavoro fatto con l'ISS sia stato fondamentale per la crescita e la riuscita calcistica di mio figlio”


7 volte campione del mondo, 22 titoli europei di cui 13 individuali consecutivi, 20 volte campione italiano (nessuno nella storia del karatè ha vinto più di te) attualmente direttore tecnico nazionale della FIJLKAM - Federazione Italiana Judo Lotta Karatè Arti Marziali. Qual è stata la tua “ricetta” per ottenere questa straordinaria continuità di risultati?

“Non esiste la ricetta magica. È fondamentale l'allenamento: quando svolgevo attività agonistica effettuavo anche undici sessioni di training a settimana, fermandomi solo al sabato pomeriggio e alla domenica. L'allenamento è la base del successo. Ovviamente la qualità, oltre alla quantità, è fondamentale. E bisogna anche essere fortunati e avere un maestro che ti segue costantemente - per me lo è stato mio padre - e che analizza ogni singolo movimento durante l'allenamento, proprio come in una lezione individuale. C'è anche una componente motivazionale. Non nego che il mio desiderio sia stato quello di essere ricordato dagli altri atleti del mio sport quanto più a lungo possibile. Pensando che molti campioni del passato sono stati dimenticati in breve tempo, mi sono imposto di restare al top il più a lungo in modo da avere contatti con quanta più gente possibile. Può suonare strano, ma questa è stata una delle motivazioni che mi ha spinto a fare bene anche dopo aver vinto tutto”.

Hai fondato la Valdesi Karate Academy (www.lucavaldesi.com) il cui credo è il raggiungimento, attraverso la continua pratica, dello “stile perfetto”, ricercato con un sapiente mix di innovazione (la scienza applicata al movimento) e tradizione. Raccontaci come riesci a fondere magistralmente questi due piani.

“Hai riassunto perfettamente. L'idea è di coniugare la tradizione dell'arte marziale agli studi di biomeccanica e del singolo gesto. All'inizio non è stato facile perché il mondo del karatè è piuttosto conservatore e appariva blasfemo (o quasi) portare innovazione all'interno di una pratica che è considerata una sorta di religione. Tuttavia, a fronte dell'evidenza - della applicazione degli studi sulle leve e sulla forza al gesto tecnico (che non dimentichiamo ha sempre un significato: è espressione di un gesto di combattimento con parate, attacchi, proiezioni) - del fatto che l'efficacia migliorava e diminuiva lo sforzo (e quindi sul piano delle energie spese si poteva dare e fare di più) ecco che è stato accettato questo 'nuovo' metodo; a tal punto che oggi a livello agonistico è il più adottato nel mondo. Nello specifico siamo partiti dalla fisica elementare; dato che al karateka interessa sviluppare una elevata potenza abbiamo fatto ricorso alla semplice formula per cui la potenza è uguale alla forza per la velocità (P = F x V). All'epoca tutti lavoravano sulla forza e la velocità era un argomento difficile da affrontare. I movimenti del karatè sono molto complessi, in cui la 'regolazione fine' è molto importante: se non si sviluppano specifiche capacità cognitive e nello stesso tempo non si eliminano i blocchi, i freni meccanici dati dalle contrazioni errate dei muscoli antagonisti ecco che la potenza subisce un calo importante. L'applicazione di un metodo scientifico ha portato a capire quando attivare determinati muscoli all'interno di una catena cinetica che persegue l'obiettivo di colpire l'avversario. Come ho detto, non è stato facile apportare modifiche alla gestualità. Ad esempio, per anni c'è stata una vera e propria diatriba con i più tradizionalisti sul movimento dei piedi, ovvero, se la rotazione dovesse essere fatta sull'avampiede o sul tallone: alla fine, tuttavia, il risultato fu così evidente che la nostra innovazione è stata accettata da tutti”.

Come spiegheresti, in breve, a un neofita che cos'è lo “stile perfetto”?

“La perfezione è una idea. Teoricamente, quindi, si tende alla perfezione senza arrivarci mai: è un lavoro continuo di ricerca e di allenamento per migliorare i propri limiti. Stile perfetto significa riuscire a fare tutti i movimenti al massimo dell'efficacia con la maggiore energia possibile, senza alcuna sbavatura tecnica. Potremmo dire che si tratti di un concetto ideale. È chiaro che un allenamento corretto permette di avvicinarci quanto più possibile a questa idea”.

Nel tuo libro biografico (Karate icon. Io sono Luca Valdesi, Ultra Edizioni) viene descritto il percorso - netto e lineare - che ti ha portato a diventare una icona, un personaggio-mito nel mondo del karatè, ma allo stesso tempo a coltivare il tuo essere autentico come persona, marito, padre. Cosa consigli ai giovani talenti - esposti alle lusinghe del mondo del calcio - per mantenere la propria autenticità?

“Di restare con i piedi per terra. Dobbiamo ricordare che a parte i fuoriclasse, tutti gli altri affrontano gli stessi sacrifici per arrivare a vincere una gara (anche se non sempre si riesce). Per quanto mi riguarda avendo praticato uno sport individuale - il mio impegno è stato uguale a quello di tutti i miei avversari. Questo porta ad avere un grande rispetto verso gli altri e ti fa comprendere che hai avuto fortuna, che hai capito meglio la metodologia di allenamento, che hai un talento differente, che hai la possibilità di dedicare più tempo perché fai parte di un gruppo sportivo e riesci ad allenarti senza avere altri pensieri. Ne consegue una grande concretezza e umiltà. Mi permetto di dare questo consiglio a tutti gli sportivi, sia a quelli che si avvicinano al mondo del professionismo, sia a chi si è già affermato. Il basso 'profilo' è alla base: in fin dei conti facciamo un lavoro che ci piace, che permette di esprimere noi stessi al meglio e che dobbiamo continuare al massimo delle nostre possibilità. Tuttavia, mi rendo conto che quando subentrano i soldi (tanti soldi) per un ragazzino non sia facile riuscire a gestire uno stile di vita così diverso dal precedente. In questo senso assume un ruolo fondamentale la famiglia, che ti permette di restare con i piedi per terra, di continuare il tuo stile di vita, di ricordarti che non sei un superuomo perché guadagni cifre astronomiche, ma che sei soltanto un atleta che deve fare bene il proprio lavoro. Questa è la mentalità che si deve avere. E poi si deve essere sempre a disposizione di tutti, perché il mondo dello sport è come una ruota che gira molto velocemente. Penso che la famiglia sia ancora più importante nel mondo del calcio, perché i ragazzini di talento vanno via di casa molto presto. Porto l'esempio di mio figlio che a dodici anni si è trasferito a Palermo dai nonni per continuare a giocare in una squadra competitiva: è riuscito a farlo grazie a ciò che gli abbiamo trasmesso fin da bambino. Quando lasci la famiglia e sei un adolescente devi avere alcune certezze consolidate sul piano dei valori. Non è facile, ma bisogna dedicare tanto, tanto tempo ai propri figli”.

Nella tua Academy come si comportano i genitori dei piccoli karateka?

“Nel mondo del karatè il maestro è visto come una figura molto carismatica: ha una responsabilità enorme perché spesso i genitori si basano sulle parole del Maestro per orientare la crescita del proprio figliolo. Per il calcio è diverso, lo sappiamo tutti: in Italia ci sono sessanta milioni di commissari tecnici. Il karatè invece costituisce una nicchia sportiva. Quando il maestro dice una cosa, il genitore - anche se non ne capisce il senso - vi si affida totalmente. Ovviamente questo dà onere ancora più grande al maestro che deve non solo essere preparato, ma in grado di interagire con dei ragazzi”.

Tu hai un figlio che gioca a calcio nella Spal, hai una esperienza da genitore di questo sport: pensi che karatè e calcio possano avere qualche tratto in comune? E cosa manca al calcio?

“Penso che ci siano tanti caratteri in comune. Più mio figlio è andato avanti nel suo percorso di calciatore più mi sono reso conto di come alcuni aspetti fondamentali del modo del karate come la propriocezione (n.d.r. dal latino proprius, appartenere a se stesso - è il senso di posizione e di movimento degli arti e del corpo), l'equilibrio, la stabilità, possiamo ritrovarli nel calcio, anche se a volte è proprio ciò che manca in questo sport. Inoltre, ritengo che debba migliorare sotto il profilo atletico, della mobilità, dell'equilibrio. Spesso i calciatori - anche quelli più bravi - mostrano dei deficit propriocettivi, e di scarsa mobilità che si possono poi tradurre in infortuni. Non so perché, ma nel calcio lo stretching è considerato in modo negativo o trascurato in quanto si pensa che si possa ridurre la potenza massima del gesto. Invece va inteso come un lavoro di recupero, post allenamento. La differenza tra calcio e arti marziali riguarda la valorizzazione dell'individuo: mi rendo conto che il primo in quanto sport di squadra debba puntare al risultato del collettivo. Tuttavia, credo fortemente che far crescere i singoli porti l'intera squadra a essere migliore. In questo senso ho sempre pensato che il lavoro fatto con l'ISS sia stato fondamentale per la crescita e la riuscita calcistica di mio figlio”.

Stile perfetto e calcio: pensi che questo connubio sia possibile?

“Come ho detto poc'anzi, credo che anche nello sport di squadra sia necessario tendere alla perfezione individuale. Abbiamo esempi macro: pensiamo a Cristiano Ronaldo che cura l'alimentazione, le ore di sonno, il recupero, che ha un fisioterapista personale, che si impegna in allenamenti oltre a quelli effettuati con la sua squadra; è la meticolosità e la attenzione a se stesso che portano a divenire atleta perfetto. È chiaro che stiamo parlando sempre di tendere a un obiettivo che si sposta sempre in avanti. Lo ripeto: quello che forse manca in Italia è l'attenzione al singolo calciatore, il comprendere quali siano le sue esigenze psicologiche, tecniche, fisiche. Alcune squadre hanno iniziato a farlo: in ogni caso c'è molto da migliorare”.

LA CARRIERA

Luca Valdesi è nato a Messina nel 1976: rappresenta l'icona del karatè italiano e mondiale. Nessuno nella storia della disciplina ha vinto più di lui. In vent'anni di attività agonistica (si è ritirato nel 2014) ha conquistato 7 titoli di campione del mondo, 22 di campione europeo (di cui 13 consecutivi) e 20 di campione italiano. Attualmente ricopre il ruolo di direttore tecnico nazionale della FIJLKAM - Federazione Italiana Judo Lotta Karatè Arti Marziali.

INTERVISTA - La consulente nutrizionale dell’Individual Soccer School: “La chiave del successo sportivo è trovare l'equilibrio perfetto, perché anche il troppo, come il poco, non va bene e riduce la nostra prestazione. Anche l’idratazione è fondamentale, meglio l’acqua degli integratori”

Dottoressa, ci scusi la domanda banale: potrebbe illustrarci i benefici di una corretta alimentazione?

“Una corretta alimentazione, associata all'esercizio fisico, non solo promuove la salute generale, ma consente di soddisfare i bisogni energetici e nutrizionali degli sportivi, sia amatoriali che professionisti, permettendo, quando adeguatamente adattata alle specifiche necessità dell'atleta, di migliorarne il rendimento agonistico”.

Il filosofo Ippocrate diceva: “Se fossimo in grado di fornire a ciascuno la giusta dose di nutrimento ed esercizio fisico, né in difetto né in eccesso, avremmo trovato la strada per la salute”.

“Ad oggi non ci sono più dubbi: la scienza, infatti, ha ampiamente dimostrato che seguire una dieta sana e svolgere un’attività fisica moderata è fondamentale per prevenire l'insorgenza delle patologie croniche (malattie oncologiche, cardiovascolari, diabete di tipo 2, osteoporosi, patologie neurodegenerative) responsabili di più del 70% di tutti i decessi nel mondo. in particolare, l'attività fisica favorisce il mantenimento di un corretto peso corporeo, riducendo l'insorgenza di sovrappeso e obesità, noti fattori di rischio per lo sviluppo di queste patologie: un problema che si riscontra non più solo negli adulti ma anche nei giovani. In questo senso, mi sembra utile proporre una metafora: il nostro corpo, il fisico dell'atleta e dello sportivo, a tutti i livelli, è come una macchina da corsa. Il progetto può essere perfetto (come è in effetti, quello del corpo umano), ma per arrivare primi al traguardo non basta.

  • Poca benzina? Non arriviamo in fondo.
  • Troppa benzina? La macchina è pesante e perdiamo in velocità.
  • Gomme usurate o sgonfie? Prestazioni inferiori.
  • Lubrificante insufficiente? Probabile rottura meccanica prima della fine della gara... e così via.

Questo è in pratica quello che vi garantisce una sana e corretta alimentazione: il massimo rendimento, il 100% del vostro potenziale espresso in gara ed in allenamento e soprattutto - ci tengo particolarmente a sottolinearlo - una condizione sempre perfetta che previene infortuni e garantisce continuità e costanza nella preparazione, negli allenamenti e nelle gare. Nutrirsi bene significa mantenere l'equilibrio naturale del nostro corpo e sfruttarne tutte le eccezionali capacità costantemente nel tempo. La nostra “macchina da corsa” può avere un motore fantastico, ma se la meccanica è fragile o sotto-dimensionata, in gara si romperà”.

Più nello specifico, cosa consiglia a chi fa attività sportiva?

“L’alimentazione sportiva non è imbottirsi di proteine, integratori o supplementi. La chiave del successo sportivo è trovare l'equilibrio perfetto, perché anche il troppo, come il poco, non va bene e riduce la nostra prestazione. Non serve aumentare le dosi di un nutriente se al vostro corpo non serve, anzi, siccome in ogni caso lo dovrà assorbire, gli stiamo facendo fare un lavoro inutile e quindi sprecare energia. Ovviamente, oltre all'importanza della scelta del cibo, esiste un altro pilastro imprescindibile che fa in modo che tutti gi organi funzionino a dovere e rendano al massimo: l'acqua, la corretta e adeguata idratazione. Imparare a bere è fondamentale perché noi non possiamo fare scorta di acqua, il suo eccesso viene eliminato ma se ne introduciamo troppo poca subentra il problema della disidratazione, molto pericolosa per uno sportivo. Anche il fabbisogno di fluidi dipende dal tipo di attività dalla durata dal metabolismo e dal peso di ognuno di noi. La bevanda migliore per lo sportivo è l'acqua, meglio naturale e a temperatura ambiente. Anche qui gli integratori o supplementi vanno personalizzati, soprattutto nella fase di crescita dei ragazzi. Quindi, va sempre posta estrema attenzione all'uso degli integratori: il “fai da te” non è consigliabile”.

INTERVISTA - 283 presenze e 62 gol da professionista, oggi gioca a Novara: “Lavorare con l'intensità che la scuola propone permette di sviluppare - soprattutto se si comincia da molto giovani - un'ottima sensibilità del piede, caratteristica fondamentale per chiunque voglia diventare un calciatore”

Buongiorno Francesco, raccontaci il tuo percorso calcistico tra Italia, Svizzera e Australia.

“Il mio percorso calcistico comincia nel settore giovanile della Juventus, dove ho fatto tutta la trafila. Successivamente ho avuto l'opportunità di fare diverse esperienze in Lega Pro per club come Carrarese, Unione Venezia, Monza e Real Vicenza. Nel 2015 vengo acquistato dal Santarcangelo dove faccio molto bene guadagnandomi l'interesse del Losanna, squadra di prima divisione svizzera per la quale ho giocato nei tre anni successivi. A seguito di un grave infortunio sono stato lontano dai campi per diverso tempo. Al mio rientro, nonostante la retrocessione, il Lucerna mi ha contattato e dato la possibilità di continuare a giocare per la lega maggiore svizzera. Sono quindi tornato in Italia per vestire la maglia del Chievo in una stagione per me complicata, dato il mio arrivo a campionato già iniziato. L’anno scorso ho avuto la possibilità di andare in Australia a giocare nella A-League per il Melbourne Victory, un'esperienza tutt'altro che semplice. Sono quindi tornato in Italia, al Latina, e da gennaio gioco a Novara”.

Parliamo del tuo ruolo in campo: sei più una prima o seconda punta? Oppure, ti senti un trequartista?

“Il ruolo che sento più mio è quello di seconda punta, preferisco giocare in coppia con un altro attaccante in modo da poter sfruttare al meglio la mia caratteristica principale che è il tiro in porta. Se accanto a me ho un giocatore rapido in grado di attaccare la profondità, oppure un attaccante fisico che mi permetta di sfruttare le sue sponde, sono nelle condizioni di posizionarmi qualche metro più indietro in modo da aver maggiore spazio e poter guardare la porta”.

Cosa ha rappresentato per te l’Individual Soccer School?

“Il lavoro personalizzato svolto presso l'ISS mi ha dato la possibilità di crescere rapidamente soprattutto dal punto di vista tecnico. L'importanza di lavorare con l'intensità che la scuola propone permette di sviluppare - soprattutto se si comincia da molto giovani - un'ottima sensibilità del piede, caratteristica fondamentale per chiunque voglia diventare un calciatore”.

Torniamo alla tua esperienza australiana: per affrontare la A-League ad alto livello, quanto “pesano” tecnica, tattica e intensità? E qual è la differenza di preparazione tra Torino e Melbourne?

“Il campionato di A-League australiano è caratterizzato da un gioco molto fisico e da una grande intensità: un'idea di calcio che può ricordare quella inglese. L'impostazione tattica è meno rilevante rispetto a quella delle squadre italiane: durante una partita ci sono continue azioni da una parte all'altra, con continui capovolgimenti di fronte. La grande differenza tra il lavoro svolto in Italia e quello svolto in Australia risulta evidente nello spazio che la tattica ha all'interno della programmazione degli allenamenti. In Italia si lavora moltissimo sull'impostazione tattica di una squadra mentre in Australia ci si concentra molto sul lavoro in palestra e sul campo: il movimento calcistico qui è sicuramente molto giovane e quindi, ha ancora enormi possibilità di crescita in futuro”.

Ora sei tornato in Italia. Quali sono i tuoi programmi per il futuro?

“Il mio obiettivo adesso ovviamente è giocar bene per il Novara, ma non escludo la possibilità di fare una nuova esperienza: mi piacerebbe cimentarmi in un campionato asiatico oppure in quello statunitense.

LA CARRIERA

Francesco Margiotta è nato nel 1993 a Torino, è alto 178 cm e pesa 77 kg. Dopo il settore giovanile con la Juventus (con cui ha anche vinto il Torneo di Viareggio), ha giocato in prestito con Carrarese, Venezia, Monza, Real Vincenza e Santarcangelo- Dal 2016 al 2020 ha giocato in Svizzera, prima con il Losanna (19 gol in 71 presenze) e poi con il Lucerna (11 gol in 35 presenze). Poi una stagione in serie B con il Chievo Verona (con 5 gol all’attivo), nella stagione del fallimento, quindi l’esperienza australiana con il Melbourne Victory e il ritorno in Italia, prima con il Latina e ora con il Novara. Vanta una presenza nella nazionale italiana Under 19. Attaccante si ruolo, da professionista ha collezionato 283 presenze e 62 gol. È tutt'ora allievo ISS.

Ciao Diagne, prima di parlare del calciatore che sei diventato, raccontaci del ragazzo: dove e quando è cominciata la tua passione?

“La mia passione per il calcio è iniziata fin da bambino. Vivevo in Senegal con mia nonna in un quartiere chiamato HLM, un comune d’arrondissement della città di Dakar. Ricordo che vicino alla nostra abitazione c’era un campo da calcio e io, che ero solito andare a scuola da solo, spesso anziché entrare in aula finivo a giocare a pallone... era più forte di me. Poi la scuola chiamava a casa dicendo che non ero presente e mia nonna puntualmente veniva di corsa a cercarmi. Ricordo ancora i suoi rimproveri, ma già allora il calcio per me era tutto”.

Ora sei un giocatore di livello mondiale, ma non tutti sanno che la tua è una storia di calcio fantastica, dalla prima categoria a 19 anni ai massimi campionati mondiali e alla finale di Coppa d’Africa. Cosa ti ha portato così in alto? Cosa è rimasto di quel ragazzo che calcava i campi del calcio dilettantistico?

“Vengo da una famiglia davvero povera, non avevamo quasi niente. Cosa mi ha spinto? La voglia di dare alla mia famiglia ciò che altrimenti non avrebbe mai potuto avere: una vita serena. Per farlo avrei dovuto realizzare il mio sogno: diventare calciatore professionista. Ho fatto tanti sacrifici, sono arrivato in Italia da solo a 17 anni senza la mia famiglia. Non è stato facile, riesco ancora a sentire il freddo entrarmi nelle ossa, non riuscivo a giocare, non avevo amici, non parlavo l’italiano. È stata davvero dura, ma alla fine Dio mi ha ricompensato. Da allora per me non è cambiato nulla, non dimentico mai da dove sono partito; ricordo con grande affetto tutti i miei compagni di squadra, i mister che mi hanno sempre supportato e i tifosi, davvero splendidi. Il Bra per me è stato un trampolino di lancio, a loro devo tutto”.

Se in questo momento dovessi descrivere il “calciatore Diagne” cosa diresti? Qualità? Punti di forza? Raggio d’azione? Le tue caratteristiche sono cambiate nel corso degli anni?

“Sono un attaccante dalla grande forza fisica, tra i miei punti di forza ci sono sicuramente la determinazione nella tre quarti avversaria e la sicurezza sotto porta. Su queste qualità ho costruito la mia carriera e con il passare del tempo ho imparato a sfruttarle al meglio. Logicamente l’esperienza aiuta, ogni partita ti permette di crescere e migliorarti. Tutte le situazioni, tutti gli errori ti formano e ti portano ad affrontare ogni momento con un’altra testa. Sicuramente il Diagne di oggi unisce alle qualità l’esperienza accumulata negli anni; giocare con esperienza per me significa fare più gol”.

In Senegal, come in molti paesi dell’Africa, il calcio è più di un gioco, quasi una ragione di vita. Cosa ha rappresentato per te vestire i colori della tua Nazionale sfiorando la vittoria della Coppa d’Africa? Cosa ti resta di questa esperienza?

“Per me rappresentare il Senegal è un onore, amo la mia terra e vestire i colori della nazionale è sempre stato il mio sogno; farlo nella Coppa d’Africa arrivando a giocare la finale è stato qualcosa di indescrivibile. Purtroppo non abbiamo vinto, ma porterò nel cuore ogni istante di quell’esperienza e ogni momento in cui ho potuto indossare i colori del mio paese. Ogni giorno lavoro duramente e spero di poter tornare a far parte della nazionale e a rappresentare il Senegal”.

Il tuo vissuto ti identifica come globe-trotter del calcio con il vizio del gol: 113 in 230 partite. Qual è il campionato in cui è stato più difficile segnare?

“Il calcio è cambiato, si è evoluto e per un attaccante fare gol è sempre più difficile; non esiste un campionato in cui segnare sia più semplice. I difensori sono forti, le squadre sono preparate tatticamente e ti lasciano pochi spazi, ti studiano. È vero ho segnato molti gol, ma ognuno di questi è stato frutto di lavoro individuale e di squadra, capacità tecniche, concentrazione, cattiveria”.

ISS crede fermamente nella crescita di giocatori che facciano della tecnica uno dei propri punti di forza, quanto è importante per un giocatore di alto livello curare il dettaglio e i minimi particolari?

“È importantissimo, più si alza il livello più aumenta la velocità di gioco, il pallone viaggia rapidamente e di conseguenza diminuisce il tempo disponibile per pensare e mettere in pratica ogni giocata. Saper gestire e padroneggiare ogni gesto tecnico fa quindi la differenza, soprattutto ad alti livelli”.

Sappiamo che molti calciatori di livello mondiale hanno sempre scelto di dedicare del tempo all’allenamento della tecnica individuale. Qual è il tuo parere in merito?

“Sono d’accordo, oggi il calcio professionistico ha raggiunto livelli altissimi e ogni giocatore deve fare di tutto per performare al meglio. Lavorare sulle proprie qualità, a volte su una sola giocata o su un solo gesto richiede molto tempo e sacrificio, ma diventa un valore aggiunto ai fini della prestazione in campo”.

Quanto pensi possa essere importante la presenza di un centro di formazione che segua personalmente i giovani calciatori nella loro crescita tecnica? Credi che perfezionando il singolo fin dal principio si possa contribuire ad ottenere nuove generazioni migliori?

“Sarebbe sicuramente un valore aggiunto. Purtroppo da bambino non ho avuto la possibilità di intraprendere un percorso del genere, ma sono sicuro che per un ragazzo che vuole giocare a calcio, affiancare al lavoro di gruppo la cura di ogni gesto in forma individuale possa dare benefici incredibili, sia per la crescita di singoli giocatori che del movimento calcistico in generale”.

Belgio, Arabia Saudita, Ungheria, Cina, Inghilterra e Turchia. Modi diversi di fare calcio e soprattutto culture diverse. Quale di questi mondi ti ha affascinato di più?

“Ho giocato in molti campionati e vissuto in molte città, ma se devo sceglierne una dico Istanbul: è una città che amo, molto vivibile, piena di vita, ricca di storia e di cultura”.

Visto il tuo percorso, quali sono le motivazioni che un ragazzo che gioca in una squadra dilettante deve avere per continuare a inseguire il proprio sogno? Quale consiglio ti senti di dare?

“Ai ragazzi dico questo: non rinunciate ai vostri sogni! Credeteci sempre! Non sarà facile, nulla vi sarà regalato e niente arriverà per caso; serviranno tanti sacrifici e magari passerete attraverso delle delusioni, ma se avete un sogno inseguitelo, non smettete mai di lottare e sarete premiati. Ricordando da dove sono partito, se dovessi riassumere tutto il mio percorso con una sola parola, direi senza dubbio “sacrificio”. Amo il mio lavoro e rifarei tutto ciò che mi ha portato a diventare il calciatore e la persona che sono ora”.

Ultima domanda, guardiamo al futuro… cosa c’è all’orizzonte? O cosa vorresti che ci fosse?

“Futuro? Non si può mai prevedere. Come vi ho detto amo il calcio e spero di continuare a giocare per altri anni finendo la mia carriera al meglio”.

LA CARRIERA

Sono tantissime le squadre in cui ha giocato (e segnato) Mbaye Diagne, possente centravanti (193 cm per 82 kg) classe 1991. Il primo salto è dal Brandizzo a Bra, dove segna 23 gol in 29 partite e contribuisce alla promozione in Lega Pro. Da lì passa alla Juventus, ma non giocherà mai con la maglia bianconera, e inizia una serie di prestiti poco fortunati: Ajaccio in Francia, Lierse in Belgio, Al-Shbab in Arabia Saudita e Westerlo ancora in Belgio. Viene quindi venduto all’Ujpest, in Ungheria, e inizia a segnare a raffica: 11 gol in 14 partite. Va quindi in Cina al Tiamjin Teda, poi passa in Turchia al Kasimpasa, dove esplode e segna 32 gol in 34 partite, in una stagione e mezza. A gennaio 2019 lo compra il Galatasaray per 10 milioni di euro e vince il titolo di capocannoniere della lega turca. Va quindi per 6 mesi in prestito al Bruges, club belga che gioca la Champions League, torna al Galatasaray, va ancora in prestito in Inghilterra al West Bromwich, quindi un nuovo ritorno a Instambul. Dal 2022 gioca, sempre in Turchia, al Fatih Karagumruk, dove ha già segnato 15 gol in 23 partite. In carriera, ha sommato 289 presenze (più 11 con la nazionale del Senegal) e segnato 165 gol. Niente male…

In breve, raccontaci di te.

Mi chiamo Gregory Leperdi. Nel 2018 ho terminato la mia carriera di hockeista su slittino. Sono sempre stato uno sportivo: da ragazzo praticavo soprattutto il basket; al tempo stesso mi piaceva mettermi in gioco con diversi sport: tennis, calcio e snowboard. All'età di venticinque anni sono stato vittima di un incidente molto grave a causa del quale ho perso la mia gamba sinistra. Dopo l'incidente ho ricominciato a fare attività grazie ad una protesi che mi ha permesso in un primo tempo di cimentarmi nell'atletica (ottenendo anche record nel lancio del giavellotto e nel pentathlon) e, in seguito, a intraprendere la strada del para-ice-hockey. Nel 2006 ho preso parte alle Paralimpiadi invernali di Torino indossando la maglia della Nazionale italiana: da quel momento la mia lunga avventura "su ghiaccio" ha visto la conquista di quattro titoli nazionali e la partecipazione a quattro Europei (ottenendo un oro e un argento), sei campionati Mondiali e quattro Paralimpiadi.

Dopo l'incidente, qual è stata la "spinta" che ti ha dato la forza di andare avanti e percorrere la strada dello sport?

È stata fondamentale la vicinanza della mia famiglia, dei miei amici e in particolare di mio fratello che mi ha fatto scoprire cosa erano in grado di fare gli atleti muniti di protesi: ho iniziato così a immaginarmi di fare attività sportiva. Dopo l'incidente, uno dei primi sport che ho praticato è stato lo snowboard (di cui, fin da ragazzo, son stato un grande appassionato). Inizialmente ho trovato numerose difficoltà, tuttavia grazie a una particolare protesi non ancora sul mercato ho avviato un percorso che mi ha portato in primo luogo a testare questo apparecchio e, in seguito, a contribuire alla sua messa in commercio. Successivamente ho iniziato a vedere se vi erano gare: all'epoca lo snowboard non era ancora considerato disciplina paraolimpica; ho iniziato così a contattare persone in Canada, Australia e Nuova Zelanda. In questo modo ho dato il via alle prime competizioni: penso che tutto ciò abbia contribuito alla creazione della relativa disciplina paraolimpica, nel 2014.

Persone come te hanno portato un radicale cambiamento nello sport degli atleti con disabilità: qual è il messaggio che ti senti di dare ad un ragazzo, disabile e non, che inizia a praticare una attività sportiva?

Il messaggio da far passare è che lo sport è soprattutto divertimento. Il consiglio che mi sento di dare è quello di provare discipline diverse, cercando quella che più si addice e permette di sentirsi bene. Lo sport - al pari della meditazione, della musica e dell'arte - è un mezzo per sentirsi meglio, un momento dove la quotidianità sparisce lasciando spazio al solo divertimento. Bisogna cercare la propria passione: provando e sperimentando si trova la strada.

Quale sport senti più tuo?

Ho praticato numerosi sport e ogni volta li ho sentiti tutti miei. Quello che mi ha regalato più emozioni e risultati è stato l'hockey su ghiaccio: mi ha permesso di rappresentare la mia nazione dandomi la possibiltà di partecipare a manifestazioni.

Tu conosci bene l'allenamento e i sacrifici che lo sport richiede. Il nostro Centro di Formazione cerca di infondere nei bambini la cultura del lavoro e la disciplina: quale consiglio puoi darci per migliorare la nostra efficacia?

Sono convinto che allenamento, sacrificio, dedizione e voglia di migliorare siano fondamentali: la testa può fare la differenza, bisogna volerlo. L'obiettivo che ogni sportivo deve porsi è quello di tirar fuori il meglio di sé e non importa se non si arriva al traguardo prefissato: se si è fatto il possibile non si devono avere rimpianti, va bene lo stesso!

Quali progetti hai per il tuo prossimo futuro?

Voglio introdurre la disciplina del para-standing-tennis, una variante del tennis dedicata a chi pur avendo disabilità fisiche è in grado di muoversi e giocare senza carrozzina. Ad oggi l'unica disciplina paraolimpica è su sedia a rotelle, tuttavia vi sono numerosi atleti che giocano stando in piedi ma ne sono esclusi perché privi di un braccio.

LA CARRIERA

Gregory Leperdi è un ex hockeista su slittino nato in Francia, ma naturalizzato italiano. Con la Nazionale ha disputato tutte le edizioni dei tornei ufficiali dall'esordio degli azzurri nel 2005; quattro edizioni dei campionati europei, sei dei campionati mondiali e quattro edizioni dei giochi paralimpici invernali.

Ciao Tatiana, sei partita dal campetto di Isola del Liri, in provincia di Frosinone, per arrivare al Campionato del Mondo con la Nazionale italiana e allo Scudetto con la Lazio: due parole per descrivere questo tuo formidabile percorso.

Il mio percorso è stato straordinario anche grazie al fatto di aver conosciuto allenatori e preparatori di livello che mi hanno insegnato le malizie giuste per diventare una grande calciatrice; ovviamente dietro al successo vi sono stati tanti sacrifici e dedizione da parte mia. Arrivare al Mondiale è il sogno di tutti i bimbi - femmine e maschi - che iniziano a praticare questo sport.

Calcio femminile: il cambiamento a livello mediatico è sotto gli occhi di tutti, basti pensare che Uefa Women’s Euro 2022 è stato trasmesso in tutto il Mondo è seguito da 365 milioni di spettatori in tv, e in streaming. Cosa è mutato invece a livello tecnico?

A livello tecnico vi sono stati molti cambiamenti: finalmente si curano aspetti tecnici nello specifico come per esempio la tecnica di base, la tecnica funzionale e, soprattutto, la tecnica individuale. Ne è esempio il fatto che sono nate molte scuole di calcio individuale per curare questi aspetti a livello del singolo, nell’ottica di integrare l'individuale e collettivo.

La crescita esponenziale del movimento calcistico femminile sta consentendo a molte bambine di inseguire il proprio sogno fin da piccole, all’interno di organici totalmente in rosa. Un tempo non era così: cosa hanno rappresentato per te i primi anni passati a giocare con i maschietti? Sono stati un vantaggio?

Il mio percorso è stato diverso: da bambina ho sempre giocato con i miei fratelli, con mia sorella e con altri bambini nei campetti di zona; la prima vera squadra è stata femminile, avevo 10 anni e sono andata direttamente in prima squadra dato che la società non aveva un settore giovanile. In generale, penso che aver giocato da bambina con i maschi sia stato un vantaggio: all’epoca il livello del calcio femminile non era alto e con i maschi miglioravi la velocità di esecuzione.

Sei stata una centrocampista di qualità, hai indossato la maglia numero 10 della Nazionale e ora siedi in panchina. Quanto è importante la parte tecnica nelle tue sedute di allenamento? E in gara? Come riesci a trasmettere questa componente alle tue giocatrici?

Sono molto appassionata di tecnica e tattica e nelle sedute di allenamento le curo moltissimo. Mi piace trasmettere alle mie giocatrici l'importanza di gestire il gioco tramite un corretto dominio e controllo della palla e una esecuzione veloce della giocata.

Nel calcio di oggi (soprattutto in Italia) prevalgono fisicità, tattica e velocità di pensiero. Può essere realizzabile il sogno di un “sistema calcio” che metta nuovamente al centro il dominio e la gestione del pallone?

Certo che possa essere attuabile ma bisogna crederci e bisogna credere nel lavoro che porta a questo risultato. Nell'immediato può sembrare un lavoro pieno di difficoltà, tuttavia con il tempo dà i suoi frutti.

La nostra esperienza in Australia (nazione ospitante dei Mondiali 2023) ci ha permesso di scoprire un mondo in cui il calcio femminile è al centro di tutto il movimento sportivo: staff di professionisti, centri di formazione e appeal a livello mediatico hanno fatto sì che il numero di atlete praticanti questo sport sia cresciuto negli anni. Cosa ci separa da queste realtà? Pensi che la nascita di ISS Women possa contribuire a colmare parte di questo gap?

Da queste realtà ci separano anni di lavoro e scarsi investimenti da parte dei nostri vertici che per molto tempo sono stati assenti; inoltre, penso che avere staff professionali, ben preparati e aggiornati, faccia la differenza nel far crescere il livello. In questo senso ISS Women cercherà di aiutare a colmare il gap attraverso una preparazione rigorosa delle istruttrici e degli istruttori.

Per noi la nascita di ISS Women rappresenta il fiore all’occhiello della stagione 2022/23: che valore può avere la presenza di un centro di formazione a livello nazionale per la crescita delle giovani calciatrici?

ISS Women ha come obiettivo - e in questo senso mi auguro che possa essere un punto di riferimento - aiutare le giovani calciatrici a colmare le piccole lacune e a curare quei dettagli che non sempre possibile correggere quando si è in gruppo con tutta la squadra.

Sei la nuova responsabile di ISS Women, come intendi approcciare questo ruolo?

Sono molto contenta e onorata di entrare a fare parte di ISS Women e non vedo l'ora di iniziare. Sento una grande responsabilità verso questo ruolo e mi impegnerò al massimo per trasmettere le mie conoscenze e cura del dettaglio agli istruttori e alle ragazze. È importante far raggiungere la consapevolezza dei propri mezzi e una mentalità vincente ma questo si ottiene attraverso il raggiungimento di piccoli obiettivi positivi che fortifichino la loro consapevolezza.

Infine, cosa ti ha portato a diventare nostra allieva all’età di 30 anni? È vero che non si smette mai di imparare?

Ho iniziato a frequentare ISS Women a 30 anni perché a quell’epoca giocavo fuori sede e avevo la necessità di allenarmi i primi giorni della settimana. Ho scoperto un “mondo" altamente professionale che ha saputo migliorarmi e correggere alcuni miei gesti tecnici come nessuno aveva mai fatto nonostante i tanti anni di esperienza come calciatrice ad alti livelli. Ho migliorato la presa di decisione in base alle diverse situazioni in campo e ricordo di essere rimasta stupita di come alla mia età avessi ancora margini di miglioramento… Quindi non bisogna mai scoraggiarsi.

LA CARRIERA

Tatiana Zorri è la nuova responsabile di ISS WOMEN. Ha fatto parte della Nazionale italiana che ha partecipato al Campionato mondiale nel 1999 e ai Campionati europei nel 2001, nel 2005 e nel 2009, vestendo la maglia azzurra in 155 incontri e realizzando 22 reti.

Per informazioni su ISS WOMEN: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Mister Sannino, partendo da zero lei ha attraversato tutte le categorie, arrivando fino alla serie A: ci racconti in breve questo percorso esemplare.

Devo dire grazie ai dieci anni di “gavetta” fatta nel calcio giovanile, dove ho potuto sperimentare le mie idee con i giovanissimi, dando un contributo nel loro momento critico di crescita. A chi mi chiede “cosa è il bello del calcio?” rispondo: dare ai ragazzi la possibilità di avere un sogno. E con molti di loro – anche chi è arrivato ad alti livelli – sono ancora in contatto, allievi che magari ho avuto quando ho iniziato la mia carriera di allenatore, 35 anni fa, dopo essermi ritirato dal calcio giocato.

Che consiglio darebbe ai ragazzi che desiderano intraprendere il mestiere di allenatore?

Inizierei dicendo che rispetto al passato è cambiato tutto. Trenta, quaranta anni fa il percorso da seguire, anche se lungo e impegnativo, era noto: bisognava fare sempre e comunque la “gavetta”. Oggi le variabili sono così numerose che pianificare un andamento lineare è impossibile.

Lei ha avuto numerose esperienze all’estero: Inghilterra, Grecia, Ungheria, Libia, Svizzera. Quale di queste le ha lasciato il ricordo più intenso?

Sicuramente l’Inghilterra, per il modo di intendere il calcio, per la serenità – potrei dire – che circonda l’ambiente, pur senza perdere di vista il risultato. Ma anche per la bellezza degli impianti, per la cultura del lavoro, per la voglia di primeggiare senza dimenticare i valori fondanti dello sport. È l’unico paese in cui ho visto fare il “terzo tempo”. Anche nelle sconfitte, a fine partita, ci si ritrova insieme alla squadra avversaria a parlare, mangiare e bere. Un modo e un mondo che a noi sembra lontano anni luce. E ancora, il rito di andare allo stadio portando la famiglia, i bambini, gli anziani. Da sottolineare inoltre l’assenza di malizia, di malafede, nei giocatori: se un calciatore simula l’aver ricevuto un fallo, viene fischiato dai suoi stessi tifosi. E tu che vince o perda, fino all’ultimo secondo giochi la partita, andando all’attacco e cercando di fare gol. Anche l’Ungheria mi ha colpito positivamente: calcisticamente è crescita tantissimo, la nazionale da qualche anno sta facendo bene (grazie anche alla guida di un tecnico italiano), hanno impianti sportivi e training center avveniristici e hanno investito in modo importante nel settore giovanile.

Secondo lei cosa hanno meno i settori giovanili in Italia rispetto ad altri paesi europei?

In serie A i settori giovanili – apparentemente – sono ben strutturati. Tuttavia i risultati non appaiono all’altezza: tranne rarissime eccezioni (penso all’Atalanta e negli ultimi tempi anche alla Juventus) pochi ragazzi della Primavera arrivano in prima squadra. Inoltre pochi tra i nostri giovani calciatori fanno esperienza all’estero. Questo ovviamente si riflette sul campo: i risultati delle squadre italiane nella Young League sembrano confermarlo. E di nuovo ritorniamo al discorso della “cultura” (chiamiamola così) del calcio nel nostro paese: se un giocatore azzecca tre partite di seguito diviene subito un fenomeno; tuttavia se subito dopo ne sbaglia due cade inesorabilmente nell’oblio. Questa variabilità di giudizio ovviamente è nociva: alimenta false aspettative e allontana dall’idea fondante che è “dare solide basi al giocatore”. Così si dimentica che l’esperienza si fa sbagliando e solo dando continuamente la possibilità di agire si impara.

Da anni noi di ISS focalizziamo la didattica sull’errore tecnico del singolo: siamo quindi condizionati nel leggere le partite. Ma un allenatore come lei cosa vede in campo?

Chi privilegia la lettura tecnica (pensiamo ad Allegri) chiede giocatori che siano tecnici. Per quanto mi riguarda, voglio che i miei giocatori esprimano le proprie qualità (tecnica e fantasia: giocate di prima, dribbling, tiro; ma anche saper temporeggiare se è il caso ben sapendo che possono sbagliare (ad esempio perché c’è un comportamento tattico errato da parte dei compagni, di chi si muove senza palla). Io chiedo ai miei giocatori: in zona di campo “1” (il primo terzo dell’area di gioco) un gioco più semplice possibile, partendo dal portiere o dopo un recupero palla;  in zona “2” (il secondo terzo di campo) di essere quanto più veloci possibili nel pensare alla giocata; in zona “3” (l’ultimo terzo) che si metta a frutto la creatività del singolo. In questo modo, pur dando una evidente impronta tecnica, lascio ai miei giocatori una grande libertà di esecuzione.

Ma in allenamento, a livello di massima serie, si riesce a lavorare per correggere il gesto tecnico.

Sì, in serie A è ancora importante. Grazie allo staff dei collaboratori tecnici che ho avuto, sono riuscito a operare bene in questo senso, per comparti e a gruppi di due-tre giocatori. Ad esempio, i difensori venivano allenati a colpire di testa; i centrocampisti al modo di ricevere la palla; gli attaccanti allo stop di petto e al calciare, eccetera. Tuttavia a volte il giocatore che è “arrivato” pensa sia solo una perdita di tempo. Bisogna quindi lavorare su questo aspetto: è un problema di “cultura” del singolo e della sua sensibilità nel comprendere che si può sempre migliorare.

Quindi lei come valuta una scuola come la nostra, che opera nella correzione del singolo gesto tecnico ai fini della crescita piena e consapevole del calciatore?

L’aspetto peculiare del vostro insegnamento è l’essere individuale: il giocatore esce così dalla dimensione del collettivo ed entra in una situazione su misura per lui. Tuttavia, come ho detto poc’anzi, un giocatore “esperto” deve avere molta umiltà per rendersi conto del beneficio che ciò gli può dare: io vorrei avere tutti i miei giocatori così, con questa umiltà.

Se magicamente potesse tornare in una città in cui è già stato, dove vorrebbe andare?

Dove non sono ancora andato! A 65 anni ho ancora tanta voglia di mettermi in gioco, di pormi nuovi obiettivi. In questo momento sto allenando una squadra di prima lega elvetica: è composta da semiprofessionisti, ragazzi che hanno una occupazione e che al termine delle otto ore lavorative vengono ad allenarsi. Per me è come se fossi in serie A: le soddisfazioni che ho con ragazzi cos’ motivati, che ascoltano, sono impagabili. Il mio girovagare per il mondo è dovuto alla ricerca continua di questo entusiasmo, potrei dire infantile, nel giocare: è la cosa che più mi rende felice.

LA CARRIERA

Dopo aver allenato le giovanili di Voghera, Pavia, Monza, Como, Giuseppe Sannino approda al professionismo nel 1996, scalando negli anni le varie categorie per arrivare nel 2011 in serie A con il Siena. Fanno seguito le panchine di Palermo, Watford (seconda divisione inglese), Catania, Capri, Salernitana, Triestina, Levadiakos (prima divisione greca), Novara, Honved Budapest (prima divisione ungherese), Al-Ittihad Tripoli (prima divisione libica), Nocerina. Attualmente allena il Paradiso Lugano, che milita nella terza divisione svizzera.

 

Individual Soccer School (ISS) è un centro internazionale di formazione tecnico calcistica individuale, che opera in diverse regioni d'Italia e, da questa stagione, anche all'estero.

ISS nasce nel settembre 2010 a Pianezza, in provincia di Torino, sulla base di una considerazione apparentemente banale, ma quantomai vera: la constatazione della mancanza del ruolo, nel mondo del calcio, dell'istruttore individuale. Da una attenta osservazione delle routine di allenamento effettuata sia nei contesti sportivi nazionali che internazionali, è apparso evidente come la cura del gesto tecnico fosse trascurata rispetto ad altri momenti dell'allenamento, che mettevano in gioco fisicità, forza e velocità, intelligenza tattica e altri fattori di natura caratteriale. Ma ancora di più ha colpito l'assoluta mancanza di un vero e proprio centro di formazione costruito attorno all'insegnamento della tecnica individuale nel gioco del calcio. In questo senso l'obiettivo di ISS è potenziare capacità, attitudini sportive e comportamentali di tutti gli atleti/e a cui si rivolge nella fascia di età compresa tra i 6 e i 20 anni, mediante programmi didattici differenziati e modulati secondo il livello di crescita o abilità raggiunti.

Inoltre Individual Soccer School propone a società calcistiche, dilettanti e professionistiche, una collaborazione tecnica con programmi specifici. Il corso di formazione per istruttori presenta una concreta opportunità di conoscere e condividere il metodo ISS mediante un programma specifico di preparazione teorica e sul campo.

Il centro di formazione annovera undici sedi distaccate in Italia e tre all'estero; è presente a Bassano del Grappa, Bolzano, Trento, Monza, Ornago, Trezzo sull'Adda, Olbia, Tempio Pausania, Charvensod, Ospedaletti, Palermo. In Francia a Quimper, in Repubblica Ceca a Brno e nel New South Wales (Australia) a Illawarra. ISS ha anche avviato un percorso rivolto a studenti-calciatori per l'assegnazione di borse di studio presso università statunitensi.

Nel corso della sua attività decennale sono stati più di 20.000 gli atleti/e che - grazie a stage, eventi, collaborazioni con società e percorsi individuali - hanno potuto giovarsi del metodo ISS. Di questi oltre 300 sono approdati a società professionistiche. Altrettanti sono stati gli istruttori formati tramite i corsi dedicati sopra citati.

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